«Davvero? Io invece mi sento sempre più un burattino ogni minuto che passa.»

Varzil sospirò e lentamente si mise a sedere sul divano; le coperte scivolarono via, rivelando l'abito grigio che avvolgeva il corpo magro e minuto.

Varzil tese la mano e prese la scatola, restando poi a guardare i braccialetti, in silenzio, perso nei suoi pensieri, dimentico della loro presenza. Infine si riscosse e con uno sforzo raddrizzò le spalle.

«Ditemi, Varzil: intendevate dare il vostro anello a quel Mikhalangelo?» Mikhail pose la domanda senza quasi riflettere.

«No. Soltanto dopo che venne catturato compresi quello che dovevo fare e il peso di quella conoscenza mi è costata moltissimo. Come, d'altronde, l'attesa.»

«L'attesa di che cosa?»

«Che tu distruggessi la Torre di Specchi, Margarethe, perché, senza la matrice ombra incisa nella tua carne, il mio piano non potrebbe realizzarsi. Tu non sai ancora che cosa possiedi e io non posso dirti nulla... se non che è quella matrice, e non io, ad aver fatto del tempo il tuo giocattolo. E io conosco il tempo. Ha sventato il piano di Ashara.»

Marguerida rise. «Be', non ho remore a sventare i piani di quella strega, in qualunque posto e in qualunque tempo, per vendicarmi di quello che ha fatto non solo a me, ma anche a tutte le altre povere donne che ha oscurato e di cui si è servita. Però credo che vi sbagliate: sono io il giocattolo del tempo, e non viceversa.»

Varzil annuì. «A volte è difficile distinguere dove comincia una cosa e dove ne finisce un'altra. Ora cominciamo. Togliti il guanto di seta, Margarethe; e tu, Mikhalangelo, prendi la tua matrice.»

Con una certa riluttanza, Mikhail estrasse la matrice dal sacchetto e la guardò; era una pietra di modeste dimensioni, come si conveniva al suo modesto laran, niente al confronto di quella che brillava sulla mano di Varzil.

Si trattava di una follia: nessuno poteva toccare la pietra di un'altra persona senza rischiare uno choc, a volte anche mortale, per entrambi. E poi lui era sicuro di non avere la forza necessaria a controllare le energie che scorrevano nelle sfavillanti sfaccettature del bellissimo e pericoloso gioiello del laranzu. Se avesse fatto quello che gli veniva chiesto, sarebbe morto: che vantaggio aveva a sposare Marguerida, se poi moriva?

Mikhail aprì la bocca per protestare, ma scoprì di avere la gola secca. Il sangue gli pulsava nelle tempie, tanto che si chiese se non stesse per svenire. Ma quell'attimo di debolezza passò e sentì un'improvvisa e inspiegabile sensazione di forza scorrergli nelle vene, come se avesse dormito per una settimana e mangiato due dozzine di pranzi. Tuttavia, se il suo corpo sembrava rinvigorito, la sua mente era ancora assillata dai dubbi e dalla paura.

Mentalmente, Mikhail fece un passo indietro e analizzò la sua posizione con una freddezza e un distacco che non aveva mai pensato di possedere. Perché doveva fidarsi di quel debole vecchio, o anche della sua amata Marguerida, addestrata solo per metà, con un enigmatico strumento di potere inciso nella sua carne dal Supramondo? Non aveva una risposta, non aveva una certezza, solo una pallida e fragile speranza.

Varzil lo fissava con occhi pieni di compassione, come se conoscesse i turbamenti della sua anima. Ma certo! Varzil era un Ridenow, il cui Dono era l'empatia. Ma lui non voleva la sua compassione e neppure la sua comprensione!

Marguerida piegò la mano e lui vide le linee della matrice brillare, come se i lampi percorressero la sua pelle chiara. La guardò in viso e si accorse che i suoi occhi erano vuoti, la bocca contratta, come se cercasse di trattenere un grido; la fronte appariva imperlata di gocce di sudore che luccicavano nella tenue luminescenza emessa dalla sua mano.

Stava combattendo contro le sue paure, proprio come aveva fatto lui un attimo prima, e quella silenziosa lotta interiore lo turbò; ma se lei era pronta ad affrontare quello che li attendeva, allora lui non poteva essere da meno... per essere degno di lei. No... per essere degno di se stesso!

«Figlioli, venite a me, ora!»

Mikhail cercò di resistere a quel comando, ma non poté. Distolse lo sguardo da Marguerida e lo posò sul volto calmo del vecchio tenerezu: scorse un viso diverso, con i lineamenti più marcati, più lisci, quasi più giovani, come se fosse andato indietro nel tempo.

La vecchia donna era dietro di lui, con le mani posate sulle sue spalle, e Mikhail percepì la forza che scorreva da lei, riversandosi nell'uomo, il cui viso diventava sempre più giovane col passare dei secondi. C'era qualcosa di particolare nel modo in cui lo sosteneva, qualcosa d'importante, che lui sentiva di dover comprendere. Mentre la fissava, il viso della vecchia si sfocò e cambiò; la donna divenne giovane, e bellissima, com'era successo a Varzil, e il suo corpo splendette.

Mikhail fu costretto ad abbassare lo sguardo, perché lo splendore che irradiava da lei era troppo grande. Ma non erano i suoi occhi che non riuscivano a sopportare la luce, bensì la sua anima, e in quell'istante comprese: non c'era vergogna e neppure diminuzione della propria mascolinità nell'accettare il sostegno di una donna... Tuttavia non bisognava abusarne, né darlo per scontato. Era un dono della cui esistenza non si era mai reso conto, e quell'idea lo scosse nel profondo.

Avvolto dalla luce, Mikhail s'inginocchiò sul pavimento freddo, senza quasi rendersene conto, rapito dalla meraviglia. Sollevò lo sguardo verso quello splendore soprannaturale e vide un sorriso dolce e radioso, che spazzò via i dubbi e le paure.

Tremando, chiuse la mano intorno alla matrice e pensò che era una cosa misera, indegna di quella presenza soprannaturale. Un angolo della sua mente era consapevole del buco nello stomaco, delle pietre fredde contro le ginocchia, dei muscoli indolenziti; ma quei fastidi terreni appartenevano a un altro uomo, a un altro tempo.

Poi la mano destra di Marguerida, fresca e morbida, gli sfiorò il polso. Mikhail smise di tremare e sentì lo stupore reverente di lei fondersi col suo, in un momento di unione più intimo di qualsiasi cosa avesse mai sperimentato.

Guardò Marguerida, inginocchiata accanto a lui e sul suo viso vide riflessa la stessa gioia che lo pervadeva e, come in un'eco della figura alle spaile di Varzil, sentì la sua forza sostenerlo.

«Siamo qui per unire questa donna, Margarethe di Windhaven. e quest'uomo, Mikhal Raven di Ridenow, detto l'Angelo di Serrais, in un unico essere, un'unica mente, un unico cuore, un'unica anima. Su questa unione invochiamo la benedizione degli dèi. Margarethe, giuri di onorare quest'uomo col corpo e con la mente, tutti i giorni della tua vita?»

Mikhail attese la risposta di Marguerida per un tempo che gli parve infinito e nel contempo notò che non aveva mai sentito la formula del rituale usata da Varzil, alla quale mancavano alcune parole cui era abituato. E anche i nomi erano sbagliati. Poi si rese conto che in quel luogo e in quel tempo quelli erano gli unici nomi che Varzil conosceva; o forse, c'era una ragione più complessa per nascondere le loro identità.

«Lo onorerò tutti i giorni della mia vita.»

«E tu, Mikhal Raven di Ridenow, giuri di servire questa donna col corpo e con la mente, per tutti i giorni della tua vita?»

Servirla? Gli pareva una formula molto strana, l'esatto contrario delle promesse di matrimonio che conosceva, e per un attimo esitò. Poi, di colpo, nel profondo della sua anima, si rese conto che non voleva altro che servire quella donna e che quello che importava non erano le parole, bensì l'intenzione.

«Giuro di servire questa donna, col corpo e con la mente, per tutti i giorni della mia vita.»

Varzil prese il braccialetto più grande dalla scatola e lo infilò al polso di Marguerida; poi ripeté la procedura e Mikhail sentì il freddo metallico del bracciale sul suo polso, molto più pesante di quello che si aspettava.

«Io, Varzil Ridenow, Signore di Hali, raccolgo questo giuramento e lo dichiaro indissolubile sino alla fine dei tempi. Non sono soltanto le parole a sposarli, ma il dolce sangue della terra; sono uniti nella carne e nello spirito, com'è sempre stato dall'inizio dei tempi. Io testimonio che essi sono un'unica persona, uniti e inseparabili sino alla fine dei tempi.»

Mikhail si voltò verso Marguerida e le sue labbra incontrarono quelle di lei come se non avesse mai baciato una donna.

«Mikhal Raven di Ridenow, ora dammi la tua pietra matrice. E non temere!»

Mikhail aprì lentamente il pugno, sorpreso nel non provare paura. La piccola pietra si librò sopra la sua mano, un puntolino che splendeva nella luminosità irradiata dalla donna sorridente alle spalle del grande tenerezu, e, come una falena notturna, volò verso l'anello di Varzil e cadde dentro la grande matrice che gli adornava la mano, svanendo con un lampo. Mikhail s'irrigidì, terrorizzato nonostante le assicurazioni di Varzil.

Ma non vi fu nessun trauma, nessuna scossa; solo un momentaneo senso d'ilarità e l'impressione di trovarsi all'interno della pietra stessa, di nuotare in quelle sfaccettature luccicanti, sballottato da forze invisibili che lo trapassarono come una luce, giungendo fino alla più pura essenza del suo essere.

Sollevò allora lo sguardo verso Varzil e si ritrovò a fissare il suo stesso volto, i suoi occhi azzurri che splendevano di una luce ultraterrena, i suoi riccioli biondi che cadevano scomposti sulla fronte. Per un attimo la sua mente si rifiutò di accettare quello che avveniva.

Ma la visione svanì subito e Varzil tornò a essere se stesso, vecchio e fragile. «Ora, Margarethe, prendi l'anello dalla mia mano, e impara una parte dei tuoi poteri... la mano che per quest'occasione è stata marchiata!»

«Ma vi ucciderà!»

«Fai presto, ragazza mia! Non posso controllare troppo a lungo le energie! Fai come ti dico!»

Marguerida tese incerta la mano sinistra e Varzil inclinò la sua, in modo che l'anello scivolasse nel suo palmo proteso. Margaret non si mosse e fissò il gioiello risplendente con occhi lucidi: i lineamenti del suo volto divennero tesi, il suo corpo s'irrigidì e attraverso la mano destra, ancora posata sul suo polso, Mikhail percepì l'energia che scorreva nel corpo di lei, percepì la brutale creazione di nuovi canali. Fu una sensazione sconvolgente e lui capì che Marguerida non l'avrebbe sopportata senza la presenza dell'altra donna, quella donna che ora sembrava fatta di luce. Era lei che faceva scudo alla sua amata, proteggendola.

«Dai l'anello a tuo marito, Margarethe!»

«Con gioia!» Quella risposta così immediata gli restituì un senso di realtà, di essere ancorato in un momento ordinario nel mezzo di eventi straordinari.

Marguerida si voltò verso di lui, tenendo l'anello sul palmo della mano, e disse: «Dammi il dito e fai in fretta, amore mio. Ora!»

Mikhail tese la mano sinistra e lei gli infilò al dito il pesante anello, tenendolo per il metallo, senza mai toccare la pietra. «Con questo anello, io ti sposo, Mikhail Hastur!»

Un tuono gli scosse la mente, la stanza vorticò e Mikhail si sentì sprofondare nell'oscurità.

 

CAPITOLO 28

SOGNO O REALTÀ?

 

Margaret Alton sedeva sotto i rami di un sempreverde, con la pioggia che le scorreva sul viso bagnandola da capo a piedi, e il capo di Mikhail appoggiato in grembo. In un primo tempo aveva cercato di proteggerlo dall'acqua, ma le continue folate di vento gelido trasportavano gli scrosci di pioggia sotto i rami, vanificando i suoi sforzi.

Fradicia e infelice, si chinò a guardare da sotto le fronde: i cavalli erano l'uno vicino all'altro, con aria rassegnata. Avrebbe dovuto alzarsi e togliere loro la sella, ma in quel momento non se la sentiva. Frugò con lo sguardo tra i rami dell'albero sopra di lei. per vedere se il corvo era ancora lì, ma l'animale era scomparso. Con un sospiro, cercò una posizione più comoda.

Aveva fame, freddo, era esausta, Mikhail era privo di sensi, eppure lei non si sentiva disperata. Riflettendo, si rese conto che era troppo arrabbiata per sentirsi davvero disperata: arrabbiata con Varzil e la sua sconosciuta compagna, con Mikhail, per aver perso i sensi, e soprattutto arrabbiata con se stessa per la propria impotenza.

Per la centesima volta, riandò col pensiero a quello che era accaduto dopo che aveva infilato l'anello al dito di Mikhail. Era successo tutto così in fretta: un attimo prima lui la guardava negli occhi, e un attimo dopo era accasciato a terra. Poi il pavimento era scomparso e con esso anche l'edificio circolare e lei si era ritrovata inginocchiata sulla nuda terra. L'erba rosa era svanita, al suo posto c'erano soltanto alcuni sterpi maleodoranti e i resti bruciacchiati di qualche trave e di una cosa che poteva essere un aratro. Uno scroscio di pioggia sul viso l'aveva riscossa e, chissà come, era riuscita a trascinare il corpo inerte del marito sotto l'albero.

Il braccialetto che le cingeva il polso era la prova che quella soprannaturale cerimonia di nozze aveva davvero avuto luogo. Abbassò lo sguardo su Mikhail e vide la pietra scintillare al suo dito; non somigliava affatto all'anello di Varzil come lo ricordava, sembrava una cosa minuscola... Ma, mentre lo guardava, vide che continuava a cambiare forma, allargandosi e restringendosi. Che cosa significava? E lei che doveva fare?

Uno dei suoi professori aveva detto una volta in una conferenza: «Ci sono cose che il nostro intelletto non riuscirà mai ad afferrare, per quanto ci provi», e lei aveva diligentemente annotato quella frase, ritenendola molto sciocca. Tuttavia, ricordando quelle parole, con la pioggia che la bagnava e il vento che la gelava, convenne che, dopotutto, aveva avuto ragione. Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un modo razionale per spiegare gli avvenimenti del giorno e della notte appena trascorsi.

Mentre rifletteva, una parte della sua mente continuava a controllare le condizioni di Mikhail, come aveva imparato a Neskaya: il battito cardiaco era regolare, la temperatura corporea bassa, ma non ancora tanto da essere pericolosa. Ma dove avrebbe dovuto esserci la sua mente, quella mente che aveva imparato a conoscere e amare in quei mesi, c'era solo un caos turbinante. Varzil era stato un folle a pensare di poter trasferire a Mikhail la sua matrice e ancor più folli erano stati loro ad accettare.

Per il momento lei non poteva fare altro che sperare che recuperasse in pieno le sue facoltà mentali e che non si buscasse una polmonite. Quella speranza però le parve così vana che si sentì sopraffare dalla disperazione. Ma rifiutò di cedervi e s'impose di rilassarsi e mantenere il controllo.

Invece di arrovellarsi su cose che non riusciva a comprendere o per le quali non poteva far nulla, Margaret si mise a osservare la mano con la matrice. Non solo la sentiva diversa, ma anche l'aspetto esteriore delle linee era cambiato, sembravano meno marcate, meno visibili di prima, come se fossero affondate nella carne. Il breve contatto con l'anello di Varzil aveva fatto qualcosa, qualcosa che aveva mutato la sua matrice. Maledizione! Aveva appena cominciato ad abituarsi a essa, ed ecco che questa si trasformava!

Forse però era meglio così, pensò corrugando la fronte; forse quel cambiamento le avrebbe permesso di non venir percepita da Ashara. Ma in che modo era diversa? O la domanda non era invece: fino a che punto era cambiata lei? Perché non riusciva a togliersi di dosso la sensazione netta che qualcosa nel profondo del suo intimo fosse stato alterato.

Cercò di ricordare il momento del contatto tra la sua mano e l'anello; non aveva un'immagine chiara, ma i suoi muscoli tremarono al ricordo; per un istante brevissimo era stata sommersa da impressioni... no, non impressioni: informazioni! In che modo quello aveva trasformato la sua matrice?

Margaret sentì agitarsi nel suo intimo un inizio di comprensione, debole, vaga, sfuggente. Era qualcosa che aveva a che fare con le sue mani e la sua voce. C'era un altro pezzo... Dia! Il cuore diede un balzo. Era davvero in grado di guarire la madre adottiva? E se era in grado di fare quello, era anche in grado di aiutare Mikhail ora?

Una lacrima le corse lungo la guancia. No, non poteva, non ora, non ancora. Doveva imparare quello che già sapeva. L'informazione era limpida, cristallina, perfetta. E disperatamente frustrante! Non riusciva ad afferrarla. Aveva la sensazione di possedere lo scrigno di un tesoro nel petto, ma senza la chiave per aprirlo. Se soltanto non avesse avuto tanto freddo!

Margaret si aggrappò a quel pensiero; nella scarsella aveva l'acciarino e il suo piccolo coltello, in teoria avrebbe potuto accendere un fuoco, come aveva fatto qualche volta mentre viaggiava con Rafaella. Ma non c'era niente da bruciare! I pezzetti di legno sparsi lì intorno erano fradici e i rami dell'albero che la riparava erano verdi.

Doveva esserci un altro modo per riscaldarsi. Margaret sapeva che in ogni mondo abitato dagli esseri umani esistevano discipline che permettevano di generare calore. Sulla Terra per esempio gli yogi le usavano da millenni; e da quello che le era stato raccontato, anche i Cristoforo del monastero di Nevarsin ne avevano sviluppate di simili. Purtroppo, lei non ne aveva studiata nessuna.

Il calore era solo energia, giusto? E anche il laran era energia; allora, se lei era tanto in gamba, perché non riusciva a scovare un modo per generare calore con la sua matrice?

Fissò furente la propria mano, rimpiangendo di non aver ascoltato con più attenzione le lezioni di fisica. Aveva sempre trovato facili le equazioni matematiche, perché le riteneva molto musicali, tanto che era arrivata a chiedersi se non si potessero tradurre in musica. Ma il lato pratico della materia, la natura della gravità, la fusione nucleare, persino l'elettricità, le era sempre sfuggito. Non aveva la mente di un ingegnere e lo sapeva.

Si rese conto però che il controllo telepatico delle funzioni vitali consisteva nell'osservazione delle energie di un corpo; era quello che le aveva detto Liriel, e che Istvana le aveva ripetuto. Ma da dove arriva l'energia per effettuare un controllo? Era insita nelle matrici o invece il controllore la traeva dal suo intimo? Un buon controllore di cerchio, lo sapeva, era in grado di regolare le energie degli altri, impedire loro di farsi del male, o di esaurire totalmente le forze. Era una vergogna che lei avesse imparato solo i rudimenti basilari della tecnica e quelle domande non le avesse fatte quando ne aveva avuto l'occasione. Se solo Istvana fosse stata lì... solo che lei non era ancora nata, e comunque due viaggiatori del tempo erano più che sufficienti!

Da dove proveniva il calore? Dal sole, era ovvio, ma in quel momento non era molto utile, visto che era nascosto dietro una fitta coltre di nuvole. Quanto tempo erano rimasti in quella casa rotonda? Non le era apparso un tempo molto lungo, ma, per quello che ne sapeva, potevano essere passati giorni o anche settimane senza che se ne accorgesse.

Che altro? Il cibo, era quella la principale fonte di energia per gli esseri umani. Non era forse la cosa migliore a cui pensare, visto che era affamata e che l'effetto di quella zuppa, se davvero era esistita, era passato da un pezzo.

Per un momento si baloccò con l'idea divertente di far comparire dal nulla un buon pasto, ma fu costretta a scartarla, con grande rimpianto. Se fosse stata telecinetica, forse si sarebbe potuto fare, ma purtroppo non lo era. Istvana aveva detto che di tanto in tanto il laran conferiva ad alcuni individui la possibilità di muovere piccoli oggetti; e nelle Ere del Caos era possibile effettivamente usare gli enormi relè degli schermi delle matrici per trasportare le persone da un luogo all'altro. Ecco, questo era uno scampolo di tecnologia su cui i terrestri non avrebbero esitato a mettere le loro avide manine! Era una fortuna che si trattasse di una tecnica che era andata perduta, altrimenti Regis Hastur si sarebbe trovato una compagnia di Marines alla porta, con la richiesta perentoria di cederla.

Se non c'era cibo, e il sole era fuori portata, che cos'altro c'era? Be', perché non il nucleo fuso al centro del pianeta?

L'idea era balzana, ma la sua mente si rifiutò di accantonarla, ritornando insistentemente sul concetto di calore e di aridità, senza che lei riuscisse ad afferrarne il senso. Frustrata, batté il pugno a terra, sul tappeto di foglie e aghi di pino.

Era un gesto sciocco e smise subito. Si costrinse a respirare con calma, controllò ancora una volta le condizioni di Mikhail e poi tornò a riflettere sul problema.

Il dolce sangue della terra. Quelle parole si fecero strada nella sua mente e lei rammentò che Varzil aveva usato quella frase per descrivere il rame delle catenas. E il rame, se i corsi di fisica le venivano in aiuto, era un eccellente conduttore! Ma le sue conoscenze si fermavano lì. Davvero, per essere una donna istruita, era molto ignorante!

Osservò il pesante monile che le circondava il polso e, a dispetto delle circostanze in cui si trovava, sorrise alla vista di quella prova tangibile e irrevocabile di un evento realmente accaduto, un evento cui aveva sempre anelato, senza mai ammetterlo del tutto neppure con se stessa. Erano sposati, erano una persona sola, e anche se rimpiangeva la mancanza di tutti i corollari coreografici della celebrazione - il pranzo (soprattutto il pranzo!), la musica, il meraviglioso abito da sposa che Aaron le avrebbe di sicuro confezionato -, almeno l'evento si era davvero compiuto.

«Ma guarda che razza di modo di trascorrere quello che dovrebbe essere il giorno più felice della mia vita!» borbottò.

Al suono della sua voce, Mikhail si mosse, mormorò qualcosa d'incomprensibile, poi tacque. «Svegliati! Avanti, Mik! Se non ti svegli, ti perderai la prima notte di nozze!»

La prima notte di nozze, pensò con un brivido. Prima del bacio scambiato con Mikhail l'estate precedente, non aveva mai baciato nessuno, tanto potente era stato il monito di Ashara. Per un attimo fu quasi contenta che Mikhail non fosse in condizioni di consumare il matrimonio, poi, inspiegabilmente, venne colta da un impeto di rabbia nei suoi confronti. «Svegliati, maledizione!» esclamò scrollandolo per la spalla.

Ma non ottenne effetto e, con un sospiro, tolse il braccio da dietro la spalla del marito e osservò di nuovo il braccialetto. Era ancor più elaborato di quello che cingeva il polso di Dama Linnea e aveva la forma di un animale allungato, che si mordeva la coda. Non era un serpente, anche se sapeva che quella era la rappresentazione più frequente del rettile; sembrava più una pantera, o un felino di qualche tipo.

Gli occhi della bestia brillavano e Margaret si accorse solo in quel momento che nel metallo erano incastonate piccole pietre matrici, non solo nelle orbite, ma anche altre, piccolissime, come una polvere impalpabile, lungo la coda incurvata. Era un oggetto squisito, cui la patina di verderame non toglieva nulla della sua bellezza.

Con la mano sinistra, Margaret girò lentamente il braccialetto, osservando con attenzione, e per la prima volta, i dettagli. Quando posò il pollice e l'indice intorno al metallo, ebbe la sensazione di sentirlo muovere, come se il suo tocco lo avesse animato. Staccò di colpo le dita, spaventata. No, non erano le sue dita: il braccialetto reagiva all'energia della sua matrice ombra.

Rifletté su quella reazione inaspettata, chiedendosi come mai quel pezzo di metallo inerte dovesse reagire, perché sentiva che c'era un'informazione molto importante in quel fatto, che non riusciva ad afferrare. Il rame è un eccellente conduttore, le ripeté una parte della sua mente. Questo lo so, pensò infuriata. Ma che cosa significa?

Senza neppure rendersi conto di quello che faceva, Margaret appoggiò la mano destra col palmo sul terreno e strinse la sinistra intorno al braccialetto con tanta forza che lo sentì premere contro la pelle. Non accadde nulla. Be', e perché avrebbe dovuto accadere qualcosa? Imprecò, ma non ritrasse la mano, perché sentiva che stava tralasciando qualcosa. Che cosa? Un brano musicale? Molto improbabile. Ma perché si metteva a pensare alla musica quando quello che cercava era il calore? No, non era musica, ma qualcosa di simile... Un'equazione?

Uno scroscio di pioggia le flagellò il viso. Ce l'aveva lì, sulla punta della lingua, sulla soglia della mente... Che cos'era un'equazione? La rappresentazione simbolica di... un'idea, un concetto matematico che illustrava il funzionamento dell'universo. A=B, e E=mc al quadrato e tutto il resto. E anche le note su un rigo musicale erano equazioni, che esprimevano il concetto della melodia.

Nel periodo in cui frequentava il corso di fisica aveva mandato a memoria un gran numero di formule, fino a quando non aveva superato l'esame. Ce n'era una per la fusione e un'altra per la fissione e una, molto complessa, che descriveva l'elettricità. Margaret si chiese che cosa sarebbe successo se le fosse tornata in mente quest'ultima, anche solo per un istante; non le sembrava un'idea molto salutare, visto che era seduta nel bel mezzo di una pozza d'acqua; se avesse funzionato, probabilmente avrebbe fulminato se stessa e anche Mikhail.

E poi lei voleva calore, non elettricità; forse, se ci pensava, riusciva a farsi tornare in mente la formula del calore.

Ho un approccio troppo letterale, decise. Sto dimenticando che una formula è solo simbolica: non è l'equazione a essere importante, ma il concetto! L'equazione non è la cosa in sé, ma l'idea della cosa. Questa roba mi faceva venire il mal di testa dieci anni fa, e continua a farmelo venire anche adesso!

Margaret mosse la testa di lato, per allentare la tensione dei muscoli del collo; poi, respirando a fondo, concentrò la mente sul concetto di calore e strinse la mano con la matrice intorno al braccialetto. La metà critica della sua mente la informò che era un tentativo sciocco, che non c'era nulla che potesse fare, che era un'incompetente e che sarebbe morta di freddo o di fame. Con uno sforzo, zittì la voce.

Fu come se il tempo s'immobilizzasse e lei si trovasse sul ciglio di un precipizio, incapace di fare il balzo per superare l'abisso. Aveva la sensazione di essere immersa nella colla, che le soffocava le energie, il respiro, tutto. E poi, senza avvertire nessun cambiamento, Margaret ebbe la sensazione di muoversi in uno spazio senza tempo della propria mente, scivolando in mezzo a luoghi che non sarebbe mai riuscita a descrivere, fino a calarsi in una sensazione di calore incredibile.

Il suo corpo rabbrividì a quell'improvvisa e bruciante sensazione di calore che le corse lungo la carne e lungo i nervi. Durò solo un istante, ma fu sufficiente! Margaret allontanò la mano dal braccialetto e urlò. Fu un suono lacerante, che trafisse la pioggia, e si slanciò in aria, prima di svanire. I cavalli sollevarono di scatto la testa, spaventati, e la guardarono nervosi.

Margaret si guardò le mani, aspettandosi di vederle bruciate; invece erano del tutto normali. Allora notò che il braccialetto non era più verde, ma aveva ripreso il colore naturale e brillante del rame, come se quell'esperimento avesse lavato via il verderame, riportandolo al suo stato originario.

Sfinita, Margaret si appoggiò al tronco dell'albero per riposarsi. E in quell'istante si accorse che non solo aveva caldo, ma si sentiva calda, come se avesse un po' di febbre, e che i suoi vestiti erano asciutti. Era stata fortunata, rifletté, a non essersi data fuoco e non aver dato fuoco nemmeno a Mikhail!

La testa di Mikhail era sempre appoggiata nel suo grembo, ma ora i riccioli sulla fronte erano asciutti, e sul suo viso era tornato un po' di colore. Gli accarezzò dolcemente i capelli e rimase lì a guardarlo, col cuore gonfio di emozione.

La tenerezza, a quanto pareva, era un sentimento molto più potente di quanto avesse immaginato. La sensazione che provava arrotolando uno dei suoi riccioli biondi intorno al dito era tenerezza, ma anche molto di più. Era una sensazione di pace che aveva provato solo nella musica e l'esperienza le diceva di approfittarne finché poteva, perché non sarebbe durata a lungo.

Con un gran sbatter d'ali, il corvo marino atterrò sul fianco di Mikhail e gracchiò un saluto. «Dove diavolo sei stato?» scattò Margaret. L'uccello la guardò con i suoi occhietti rossi e gracchiò una risposta che le rimase incomprensibile. Ma c'era qualcosa di strano nell'uccello, un'aria di... quasi di compiacimento.

E allora, tra gli scrosci di pioggia, udì uno scalpitare di zoccoli e il tintinnio di sonagli. Sentì la bocca inaridirsi e il cuore fare un balzo: e se fosse stata Ashara?

Avvolse Mikhail nel mantello, sperando che il colore marrone lo nascondesse; poi si coprì la testa col cappuccio e nascose le mani. Era terrorizzata, tanto che trattenne il fiato finché non sentì le orecchie ronzare e la testa farsi leggera. Allora respirò, ansimando. Se avesse potuto rendersi invisibile!

Ma il corvo tradì la sua presenza con un frullare d'ali e un richiamo di saluto, e poi volò via da sotto i rami, incontro ai cavalieri. Margaret fece scudo a Mikhail col proprio corpo, come per proteggerlo, anche se non sapeva da che cosa e per un istante dimenticò che, pur non avendo armi, lei era in grado di difendersi. Poi rammentò i banditi e la sensazione d'impotenza la abbandonò, sostituita dalla cupa determinazione a difendere il marito, o a morire nel tentativo.

Udì il rumore di parecchie persone che smontavano da cavallo, poi il fruscio di mantelli bagnati e di stivali che avanzavano nel fango. Sentì la voce di una donna parlare al corvo e l'animale che rispondeva. Trattenne il fiato e si morse il labbro inferiore.

Dopo un minuto, da sotto i rami scorse parecchie paia di pantaloni e stivali rosso scuri che venivano dalle Città Aride.

Una testa si chinò e il visi tondo di una donna scrutò da sotto i rami con occhi curiosi e cauti. Non appena vide i capelli corti, e la cintura lisa di una spada legata in vita, Margaret capì che si trattava di una Rinunciataria e lasciò andare il respiro che aveva trattenuto. Il corvo non li aveva traditi, ma aveva cercato aiuto.

Altri visi si unirono al primo, visi rugosi, con la pelle cotta dal sole e dal vento. Poi la prima donna sorrise, mettendo in mostra una bocca un po' sdentata, e si accosciò per portarsi all'altezza di Margaret. «Salve, domna.» Parlò senza avvicinarsi, come se fosse consapevole della diffidenza di Margaret.

«Salve, e bentrovata.» Sperò che fosse vero, perché rammentava che Rafaella le aveva detto che le Rinunciatarie erano state soldati mercenari, al soldo degli innumerevoli Regni che avevano costellato il pianeta prima della formalizzazione del Patto.

«Sono Damila n'ha Bethenyi. Passavamo poco lontano e il vostro bellissimo uccello è volato sulle spalle della nostra bredha, Morall, e le ha detto in che situazione vi trovavate.» Ridacchiò. «Per poco non la faceva cadere di sella.»

«Lo fa spesso, ma... Mestra Damila.... le ha detto?»

«Morall possiede il laran per comunicare con gli animali, domna. Possiamo esservi d'aiuto? Siete seduta in una pozzanghera e non mi sembra un posto confortevole.»

«No, non lo è.» Margaret scostò il mantello che nascondeva il viso di Mikhail. «Mio marito è malato.» Era la prima volta che pronunciava quella parola ad alta voce, e le diede una sensazione strana.

La mano destra di Mikhail era chiusa a pugno e si vedeva solo il braccialetto, ma non l'anello. Margaret rabbrividì al pensiero della matrice di Varzil che toccava la pelle di Mikhail, ma il brivido passò subito: non era più la matrice di Varzil, ora, ma la sorprendente unione di due matrici, una delle quali era legata a Mikhail. Per questo non era morto, ma solo privo di sensi. E forse anche della ragione, ma a quello non voleva pensare.

Una delle altre donne rise rumorosamente. «Be', non pensavamo certo che vi foste dati appuntamento in una pozzanghera!» Le sue compagne risero e anche Margaret, con sua sorpresa, si unì a loro. La paura era passata e adesso aveva solo fame, freddo ed era stanca morta.

Due Rinunciatarie si chinarono sotto i rami bassi dell'albero, avvolsero il mantello intorno al corpo di Mikhail e lo trascinarono fuori. Mentre anche Margaret usciva carponi da sotto il rifugio, un'altra donna si chinò su di lui, gli sollevò una palpebra e borbottò. «Che cos'ha?» chiese.

«Choc da matrice, credo.» E come altro poteva descrivere quello che era capitato?

«Capisco.» Quella risposta parve soddisfare la sconosciuta. «Dobbiamo fare una barella e portarlo al riparo il più in fretta possibile. Jonil, occupati di tagliare dei rami, i più dritti che riesci a trovare; e tu, Karis, taglia alcune coperte per fare un po' di strisce.»

Margaret rimase a osservare come incantata, senza quasi capire che cosa avveniva intorno a lei, consapevole soltanto del fatto che c'era qualcuno che si prendeva cura di Mikhail. Avrebbe voluto aiutare, ma non aveva la forza di muoversi.

Solo quando venne adagiato su una lettiga improvvisata, Margaret riuscì a trovare la forza di scuotersi e di avvicinarsi. Con la scusa di aggiustare le coperte, gli nascose le mani lungo i fianchi. Mikhail si mosse e gemette quando lo sfiorò, come se stesse cercando di risalire dal gorgo in cui era precipitato. Margaret si chinò e lo baciò su una guancia. «Andrà tutto bene, amore mio», sussurrò.

«Andremo alla vecchia residenza di El Haliene», disse Damila.

A quel nome, Margaret trasalì. «Dove?» Non aveva nessuna intenzione d'incontrare qualche parente di Amalie.

«Vedo che non sapete: è abbandonata da parecchio, da quando il padre di Dom Padriac ha costruito la nuova fortezza. Non la usa nessuno, solo noi Sorelle.»

«Grazie, bredha.» Aveva usato l'inflessione che significava «parente», e pregò di non aver commesso errori, perché quella parolina aveva più significati di quante vite avesse un gatto, e alcuni molto più intimi di altri. «È lontano?»

Damila la guardò con una certa sorpresa, come se l'uso di quella parola fosse inaspettato. «Oh, dieci o undici miglia. È un brutto territorio, ma noi conosciamo la strada.»

Margaret annuì, poi con uno sforzo s'issò sulla sella fradicia e si preparò per una lunga e umida cavalcata. Il corvo venne a posarsi sul pomo della sua sella. «Sei un compagno eccezionale, il re dei corvi», gli disse Margaret, «e farò in modo che tu abbia due bei topolini freschi per cena, dovessi catturarli io stessa!»

Una delle donne sorrise. «Vi ringrazia per il pensiero, ma preferirebbe del pesce.»

«Ma certo, che sciocca.» Era estremamente rassicurante parlare di una cosa tanto innocua quanto i gusti alimentari del corvo di Mikhail. Margaret respirò a fondo, si lasciò sommergere dal sollievo e mosse il collo per allentare la tensione.

Si guardò intorno, cercando qualche traccia dell'edificio rotondo che era lì solo poche ore prima, ma non vide altro che erbacce, qualche pietra, i resti di parecchie travi annerite e il vetro rotto di una finestra. Nessun segno del basso muretto che avevano attraversato: intorno a lei c'era solo un pezzo di terra vuoto, con qualche albero. Era un altro mistero che probabilmente non avrebbe mai risolto.

Costrinse le mani intirizzite a stringere le reni e si accinse a seguire le sue salvatrici. Damila, che a quanto pareva era il capo del gruppo, si affiancò al cavallo di Margaret. «Andrà tutto bene, domna.»

«Vi ringrazio di essere venute», mormorò sfinita. In quel momento voleva solo abiti asciutti e un po' di cibo. E portare al sicuro Mikhail. Forse, però, chiedeva troppo. Diede un colpo di redini sul collo della giumenta e seguì le Rinunciatarie.

 

CAPITOLO 29

LE SORELLE DELLA SPADA

 

Era quasi l'imbrunire quando arrivarono. Margaret era troppo infreddolita e bagnata per osservare con attenzione l'edificio di pietra: notò solo l'aria di abbandono e desolazione che spirava da quel posto.

Smontò di sella e le ginocchia cedettero, facendola cadere in una pozzanghera. Si rialzò a fatica mentre una delle Sorelle portava via la sua giumenta e altre due trasportavano la lettiga attraverso un ingresso buio. Nella fretta di seguirle, Margaret rischiò d'inciampare nell'orlo fradicio del mantello.

Si trovò in una grande cucina, non molto diversa da quella di Armida, con due focolari enormi ai due lati della stanza, tanto grandi che ci si sarebbe potuto arrostire un bue intero. Dalle strette finestre sistemate in alto nei muri penetrava una fioca luce; quando i suoi occhi si furono abituati a quella specie di penombra, Margaret vide un grande forno panciuto a forma di alveare contro una parete e al centro un grande tavolo col legno scheggiato e ricoperto di polvere. Doveva essere un locale molto accogliente, un tempo, ora invece era solo umido e desolato.

In alto, grandi travi di legno, da cui proveniva un rumore continuo; il pavimento era ricoperto di escrementi e, sollevando lo sguardo tra le travi annerite dal fumo, Margaret vide lampi bianchi e grigi, probabilmente colombi o piccioni.

Morall, la donna che parlava agli animali, seguì la direzione del suo sguardo e, schioccando le labbra, disse: «Cena!» Corrugando le sopracciglia, fissò intensamente le travi e una dozzina o più di uccelli volarono in basso. Mentre Morall torceva con rapidità ed efficienza i morbidi colli, Margaret distolse lo sguardo; sapeva che era una sciocchezza, ma preferiva non vedere il proprio pranzo quand'era ancora vivo.

Per parecchi minuti rimase ferma sulla soglia, senza muoversi, mentre le Sorelle si davano da fare. Dopo pochi minuti, il gradevole profumo della legna che bruciava cominciò a scacciare l'odore di muffa e di umido della vecchia fortezza. Mikhail era stato sistemato a terra, vicino a uno dei due camini, e gli erano state levate le coperte bagnate. La Sorella che lo aveva esaminato gli tolse gli stivali e lo avvolse in coperte asciutte.

A quel punto Margaret si accorse che stava tremando e, con uno sforzo, si tolse il mantello fradicio e lo appese a un gancio alla parete; aveva i vestiti bagnati e i capelli che le gocciolavano lungo la schiena. Si tolse i guanti di pelle, sganciò il fermaglio a forma di farfalla e lo mise nella scarsella, pensando che era un miracolo che fosse rimasto al suo posto, con tutto quello che era successo. Tolse anche le forcine che erano servite a sostenere l'acconciatura, strizzò i lunghi capelli tra le mani, torcendoli e cercando di spremere tutta l'acqua, poi li avvolse in un nodo e li fissò in cima alla testa. Non le importava se era un'acconciatura poco appropriata, non aveva nessuna intenzione di tenere i capelli bagnati sul collo!

La donna che si stava occupando di Mikhail le si avvicinò. «Dovete togliervi quegli abiti bagnati, domna. Venite con me.»

Senza ribattere, Margaret la seguì in una stanzetta fredda che odorava di formaggio e carni affumicate; si sentiva distaccata da tutta quella situazione, come se stesse sognando. La donna aprì un fagotto e prese qualcosa di lungo e bianco. «Toglietevi quei vestiti, domna. Morirete di freddo.» Il tono era quello che si usava con i bambini, ma era così che Margaret si sentiva.

Svestirsi fu una fatica improba, la fibbia della cintura un mistero irresolubile, e i lacci della tunica un'impresa superiore alle sue forze. Uno dopo l'altro, gli indumenti si ammonticchiarono sul pavimento e a quel punto Margaret si accorse d'indossare ancora il mezzo guanto sulla mano destra, mentre il sinistro era scomparso, ma non ricordava né dove né quando. Faceva molto freddo nella dispensa, così prese l'abito che la donna le porgeva e lo indossò: era una spessa camicia da notte di lana bianca, soffice e pulita, che accarezzava con morbide pieghe la sua pelle gelata. Poi si appoggiò a una parete e si tolse gli stivali; le calze erano umide, ma non bagnate, e decise di tenerle, anche perché le condizioni del pavimento della cucina non invitavano a girare a piedi nudi. Poi prese la cintura con la scarsella e gli stivali bagnati e tornò in cucina.

Attraversò la grande stanza e, passando accanto al forno, una struttura massiccia, di piastrelle e mattoni, fu sorpresa di sentire che scottava e quel calore le penetrò nelle ossa infreddolite.

Messi ad asciugare gli stivali accanto al camino, Margaret si chinò su Mikhail; la sua pelle era calda e il colorito era migliorato, ma era ancora privo di sensi. Per un attimo prese in considerazione la possibilità di svegliarlo servendosi della mano, ma poi decise che era una cosa stupida: Mikhail aveva bisogno di tempo per guarire dallo choc della matrice e lei era comunque troppo stanca per essergli di qualche utilità.

Però aveva bisogno di qualcosa che la tenesse occupata, per impedire alla sua mente di preoccuparsi troppo. Scorse una scopa appoggiata a un muro, la prese e cominciò a scopare il pavimento. Il ritmo regolare di quel lavoro contribuì a calmare la sua mente e dopo un po' le sue paure scomparvero.

Arrivò a pulire lungo un lato del tavolo prima che le forze la abbandonassero. Si lasciò cadere all'estremità della panca più vicina, scossa da un tremito, perché, nonostante lo sforzo fisico e il calore della stanza, era gelata da capo a piedi. La stanchezza di quella lunghissima giornata e tutte le cose che erano successe la sommersero e scoppiò in lacrime, cercando di soffocare i singhiozzi che le salivano dal petto.

Non seppe mai quanto tempo rimase lì, a piangere; a un certo punto qualcuno le strappò di mano la scopa e dopo un po' sentì un odor di cibo che le fece venire l'acquolina in bocca.

La donna che le aveva dato la camicia da notte si avvicinò con una piccola ciotola di terracotta fumante, da cui si levava un profumo di erbe. «Bevete questo», disse porgendola a Margaret, «e vedrete che riprenderete coraggio, chiya.»

«Grazie», sussurrò Margaret e chiuse le mani intorno alla ciotola, lasciando che il calore misericordioso le scaldasse le dita. Poi la portò alla bocca e bevve un sorso, aspettandosi qualcosa dal pessimo sapore, ma dalle molte virtù. Invece si ritrovò a sorseggiare un liquido che sapeva di menta, zuccherato col miele, che le scese come seta lungo la gola, riscaldandole lo stomaco e le ossa indolenzite. Fu solo quando lo ebbe quasi finito che rammentò di averlo già bevuto prima, durante il viaggio verso Neskaya con Rafaella. Come lo aveva chiamato? Tè del viandante? L'ingrediente principale era la radice amara, un potente stimolante cui si aggiungevano miele e menta di montagna per renderlo bevibile.

Ricordando l'amica si sorprese a chiedersi che cosa ne avrebbe pensato Rafaella di quei primi membri della sua Lega; era sicura che a Rafi sarebbe piaciuto molto incontrare Damila e le altre e sperò di poterle un giorno raccontare quell'avventura.

Il tè le aveva dato una scossa alla mente: vedeva ogni cosa con eccessiva chiarezza, con i contorni troppo netti, ma sapeva che questo era dovuto alla bevanda che aveva appena sorseggiato che reagiva con la sua stanchezza. Mentre attendeva che la sensazione diminuisse, notò che la tavola era stata pulita e che a una delle estremità era stata distesa una tovaglia; sentì l'odore del piccione arrosto, di erbe, spezie, fumo di legna e del proprio sudore.

Di fronte a lei, dall'altro lato del tavolo, c'era una donna che mescolava qualcosa in una larga ciotola, rotolandolo avanti e indietro, come se fosse un impasto. Margaret colse il profumo di bicarbonato e sorrise: un impasto col lievito ci avrebbe messo ore a gonfiarsi e lei aveva già l'acquolina in bocca. Con gesti esperti la donna versò l'impasto in un piatto infarinato, vi affondò le dita e lo divise in due pagnotte rotonde. Poi andò al forno, accostò la mano allo sportello e annuì; prese un oggetto col manico lungo e una paletta larga in fondo, vi appoggiò le due pagnotte, e tornò al forno. Infilò la paletta nello sportello, la piegò di lato e poi la estrasse, chiudendo lo sportello.

La donna si pulì le mani infarinate sui pantaloni, sollevò una sacca pesante e versò sul tavolo una massa di cipolle, carote e radici simili a patate, delle quali Margaret era diventata golosissima.

«Posso fare qualcosa per aiutarvi?»

La Rinunciataria la guardò con occhi duri. «Le vostre mani sono abbastanza salde per reggere un coltello?»

«Non saprei, ma lasciatemi provare. Non credo che riuscirei a pelare, ma forse potrei tagliare le verdure a pezzetti.»

La Rinunciataria sorrise. «Mi chiamo Jonil n'ha Elspeth e sarei molto contenta che qualcuno mi aiutasse; faremo più in fretta. Non che mi dispiaccia cucinare, ma mi riporta sempre alla mente la mia povera madre, seduta accanto al fuoco, che cercava di preparare una zuppa con una sola cipolla e un po' di miglio. Era sempre stanca e non c'era mai abbastanza da mangiare.»

Jonil prese due coltelli dalla cintura, le tese il più lungo e cominciò a pelare con gesti esperti le verdure. Quando ne finiva un pezzo, lo passava a Margaret, che lo tagliava in quarti e poi in pezzetti più piccoli. Lavorarono in silenzio per un po', mentre tra di loro si accumulava un mucchietto considerevole di verdure pelate e tagliate; intorno a loro, le altre chiacchieravano a bassa voce mentre preparavano i giacigli per la notte e trasformavano la cucina deserta in un luogo abitabile e vivo. Il profumo dei piccioni arrosto si mischiava a quello del fumo, mentre dal forno cominciava a provenire l'aroma del pane.

«Quando mi sono unita alle Sorelle», disse Jonil a bassa voce, «credevo che non avrei mai più cucinato, perché più di ogni altra cosa non volevo diventare come la mia povera mamma.» Sbuffò, ironica. «Non so proprio perché immaginassi una cosa simile, dal momento che anche le Sorelle devono mangiare, come chiunque altro. Ho imparato a maneggiare una spada, ma non sono molto brava, così ho finito col fare proprio quelle cose dalle quali volevo fuggire. Ma almeno ho quasi sempre abbastanza da mangiare.»

A Margaret lacrimavano gli occhi per via delle cipolle; sbatté le palpebre per scacciarle, ma, non riuscendoci, se le asciugò col bordo della camicia da notte e, così facendo, sentì il metallo del braccialetto sfiorarle la guancia. «Sì, mangiare a sufficienza è certo uno dei piaceri della vita.»

«Non avrei mai pensato di ritrovarmi a pulire verdure in compagnia di una dama. Se ne sono unite alcune a noi, ma la maggior parte erano inutili in cucina.»

La donna di nome Karis si avvicinò con un pentolone, lo posò sul tavolo e cominciò a riempirlo con le verdure; lavorava piano e Margaret non aveva bisogno della telepatia per capire che entrambe le Rinunciatarie erano molto curiose sul suo conto e sul conto di Mik, ma troppo beneducate per fare domande dirette. Le venne in mente che non aveva detto loro neppure il suo nome e che loro non gliel'avevano chiesto.

Fu sul punto di fare le presentazioni, ma si trattenne. Che nome avrebbe dovuto darsi? Margarethe di Windhaven, la donna cui somigliava tanto da ingannare anche Robard MacDenis, era morta, rammentò con un brivido. E inoltre era certa di dover fare attenzione a quello che diceva; non era nel suo tempo e meno diceva, meglio era. Quello che le serviva era un bel nome innocuo, quasi anonimo, una cosa come Mary Smith o Jane Doe, ma il suo cervello stanco non l'aiutava,

Alla fine decise. «Mi chiamo Marja... Leyner.» C'erano dei Leyner nella sua famiglia, ma le fece uno strano effetto dare quel nomignolo che non usava più da anni.

«Marja... ecco un nome che non ho mai sentito prima», commentò allegra Jonil. «Carino, proprio come chi lo porta.»

Margaret rise. «Carina! Ma se mi sento come un topolino affogato!»

«All'inizio lo sembravate proprio, domna.» Risero tutte a quel commento.

Karis sollevò il pentolone e lo portò al focolare; Margaret vide che aggiungeva dell'acqua presa da un secchio di legno e qualche pezzo di carne secca e poi lo appendeva al gancio sospeso sopra il fuoco. «È meglio che vada a occuparmi del condimento, altrimenti Karis ci metterà troppo pepe e sarà immangiabile. È una brava donna, ma è meglio non fidarsi di lei per insaporire le cose. Se fosse una che canta, direi che è stonata.» Con quelle parole, Jonil si alzò, lasciandola sola a guardare la montagna di bucce.

C'era un fondello di carota, tra le bucce, e Margaret lo prese e lo addentò: era duro, ma dolce e sapeva di terra. Masticò fino a indolenzirsi le mascelle e poi lo inghiottì.

Damila venne a sedersi davanti a lei, passandosi le mani tra i corti capelli. «Adesso sembra che vostro marito stia dormendo tranquillo, ma ho il timore che gli verrà la febbre, questa notte. Vanda sta preparando la tisana febbrifuga, nel caso succedesse. Va bevuta fredda, quindi è meglio prepararla ora.» S'interruppe, con espressione incerta, e si schiarì la gola. «Come siete... finiti sotto quell'albero?»

«Non lo so con certezza», tergiversò Margaret. «È tutto molto confuso.»

«Bene, allora come si è procurato lo choc da matrice?»

«Ha toccato qualcosa...» Tutto sommato era vero e Margaret cercò di assumere un'espressione un po' vuota, sperando che Damila smettesse di fare domande. Le venne in mente in quell'istante che avrebbe potuto costringere la donna a lasciarla in pace e a quel pensiero rabbrividì.

Per fortuna, Damila considerò normale quel brivido. «Di che si trattava?»

«Credo fosse una matrice-trappola, ma non ne sono sicura. Ha avuto effetto anche su di me: c'è stato un lampo accecante, e questo è tutto quello che ricordo.» Quasi non riusciva a credere di poter mentire senza arrossire.

«Ah, ecco, questo spiega tutto. Quel Varzil Ridenow, il Signore di Hali, ha cercato di trovarle tutte e distruggerle, ma ce ne sono così tante, nelle vecchie dimore e anche in altri posti. E i suoi giorni di caccia sono finiti, ormai. È da più di un mese che giace malato nella rhu fead, credo, anche se nessuno è andato a rendergli omaggio. Almeno questa è una voce che circola, una delle tante. Un'altra voce dice che è già morto, mentre un'altra insiste che si nasconde e non nella rhu fead. Io non so che cosa credere. L'unica cosa certa è che il Patto traballa come uno sgabello a due gambe. Per noi è un bene, perché significa che i nobili sono alla ricerca di soldati, anche donne. Come se non ne avessimo abbastanza.» Damila esitò. «Non mi state dicendo tutto, vero?»

Margaret non la udì quasi, perché stava cercando di ricordarsi che cosa fosse la rhu fead. Alla fine il suo cervello stanco riuscì a ricordare che quello era il nome dato a una specie di cappella nelle vicinanze della Torre di Hali, un luogo sacro, di potere. Era una cosa sensata, a modo suo, perché Varzil li aveva appunto fatti andare a Hali. Ma poi come mai era finito in quella casa immaginaria? Anche se non sapeva perché, era certa che fosse una cosa importante e desiderò che Mikhail fosse sveglio, per fargli qualche domanda.

«No, non vi sto dicendo tutto, e me ne dispiace», rispose. «Non penso che mi credereste, se lo facessi.»

Damila annuì. «Voi e vostro marito non siete di queste parti, vero?»

Margaret rise, una risata quasi isterica, e alcune delle donne si voltarono a guardarla. «Si può dire così, Damila. Si può proprio dire così!» Quando riuscì a trattenere l'ilarità, chiese: «Come avete fatto a capirlo?»

«Non ho mai visto abiti come i vostri e parlate in modo strano.» S'interruppe un istante e aggrottò la fronte. «È quasi come se pensaste in un'altra lingua.»

«Vi ringrazio per esservi fidate di me, nonostante tutto. Vi ho raccontato tutto quello che ho osato.» Non voglio rischiare qualche commento azzardato che potrebbe cambiare il futuro, anche se non so che cosa potrebbe essere.

Damila annuì con fare grave. «Quando mi unii alla Sorellanza, mio padre mi maledisse: disse che ero pazza, una ragazzina stupida e incapace di sapere quello che voleva. E allora giurai a me stessa che mai e poi mai avrei pensato che un'altra donna non sapesse che cosa stava facendo, anche se mi fosse apparsa avventata o sciocca. Questa è la prima volta che mi capita di ricordare quel giuramento, ma mi sembra che la cosa migliore sia tenervi fede. Dove state andando, voi e vostro marito?»

«Vorrei saperlo», rispose Margaret con un sospiro.

Jonil stava togliendo le pagnotte dal forno e il profumo invitante del pane caldo si diffuse nella cucina. Con la paletta dal manico lungo le portò al tavolo e le sistemò su un vassoio, poi se ne andò. Margaret dovette resistere alla tentazione di staccare un pezzetto di quel pane fragrante e metterselo in bocca.

Vennero portate ciotole e cucchiai di legno. Margaret e Damila si alzarono e andarono all'altra estremità del tavolo, sedendosi una di fronte all'altra. Tutti i membri del gruppo presero posto, pulendosi le mani sugli abiti.

Poi Damila tese la mano callosa attraverso il tavolo e Margaret sentì la donna alla sua sinistra tendere la mano verso di lei, e con uno scatto si scansò. La sconosciuta la guardò, inorridita.

«Dobbiamo recitare la benedizione, e ci teniamo sempre...»

«Che succede?» Il tono di Damila era secco e imperioso e Margaret trasalì al sospetto e all'ostilità della sua voce. Portava ancora il mezzo guanto sulla mano destra, quella con cui aveva tagliato le verdure, e puzzava di cipolla, ma la sinistra era nuda. Era così stanca che se n'era dimenticata e aveva corso un bel rischio.

Si tolse il guanto dalla destra, lo rovesciò e lo infilò sulla mano sinistra. Quando sollevò gli occhi, si trovò al centro di otto sguardi molto ostili e molto stupefatti. Arrossì fino alla radice dei capelli: e adesso che cosa poteva dire?

«Il mio tocco vi offende, dunque?» chiese la donna.

«No, certo che no. Ma se aveste toccato la mia mano senza il guanto, non so se sareste sopravvissuta. L'ho fatto per proteggervi, non per offendervi.»

Morall, la donna che parlava con gli animali, fece un cenno di assenso. «C'è una debole luminosità creata dal laran sulla sua mano sinistra; ricordo di averla notata quando siamo entrate qui. Ha fatto la cosa giusta, Dorys, quindi non arruffare le penne. E adesso diciamo la preghiera! Non ho spezzato quei colli e spiumato tutti quegli uccelli solo per farli diventare duri e freddi mentre voi dibattete sulle buone maniere.»

Le mani si unirono e Dorys prese quella di Margaret con molta circospezione. Oh, cielo! C'è mancato un pelo! Avrei potuto restare uccisa!

Margaret colse quel pensiero e cercò d'ignorarlo. Aveva imparato a bloccare quasi del tutto i pensieri di chi le stava intorno, ma quand'era stanca le riusciva molto difficile. Così non poté fare a meno di cogliere qualche frammento qua e là: Vanda che si chiedeva se a Mikhail sarebbe venuta la febbre, Jonil che pensava al pane col lievito che aveva preparato prima, tutti pensieri normali. Quelli che non poté ignorare, invece, furono i pensieri di Damila; il capo della banda era molto preoccupata e avrebbe desiderato non aver salvato quegli sconosciuti. Voleva sbarazzarsi di quegli ospiti scomodi il più presto possibile.

Vanda cominciò a recitare la preghiera: «Per il dono di questo cibo, di questo rifugio, noi ringraziamo la Dea che ci guida e ci protegge. Ringraziamo gli animali che ci hanno dato la loro carne, e le piante che ci hanno offerto il loro sostentamento. Ringraziamo la pioggia che ci dà l'acqua e la terra che ci sostiene, ora e sempre».

Era una preghiera semplice, come molte altre che Margaret aveva udito, ma la sincerità delle donne la commosse profondamente, facendole desiderare di non essere costretta a ingannarle. Quello non era un vuoto rituale, ma una preghiera colma di vera fede e di significato.

Dorys ritirò la mano non appena pronunciate le parole e, mentre i piatti venivano passati, Margaret si chiese a quale dea si riferissero. Rafi le aveva detto qualcosa, in proposito... Si trattava di Avarra, le disse dopo qualche istante il suo cervello esaurito, la Dea Fosca. Rammentò il dipinto della divinità sul soffitto del salone da pranzo di Castel Comyn e anche l'altra figura, quella di Evanda, Signora della Luce e della Primavera, e, con un sussulto, si rese conto che l'immagine di Evanda somigliava molto alla donna splendente che aveva sostenuto Varzil durante quell'incredibile cerimonia nuziale.

Fu sul punto di scoppiare in una risatina isterica, ma riuscì a trattenersi. Aveva davvero mangiato stufato di coniglio e pane caldo preparato dalle mani di Evanda? No, non era possibile! Questo era troppo. Eppure, il braccialetto che le cingeva il polso era una prova dell'evento, e tutto il resto era privo d'importanza. E poi, c'erano cose vere di cui preoccuparsi.

Respirò a fondo e si calmò. Jonil stava tagliando a fette le pagnotte e, a quel gesto così normale, sentì la sua mente riagganciarsi alla realtà. Lei era sempre se stessa, sia che fosse Margaret Alton o Marguerida Alton-Hastur, ed era affamata. In quel momento era l'unica cosa che importava.

Damila le porse una fetta di pane e poco dopo arrivò anche il piatto di piccioni arrosto. Margaret ne prese uno e strappò una coscia: sapeva di selvaggina e sulla pelle, prima della cottura, erano state strofinate spezie e olio. Aveva un sapore delizioso.

Margaret masticò e masticò, perché la carne era un po' dura, ma in quel momento nemmeno la più raffinata cucina di Thendara le sarebbe sembrata migliore. Prese il pane e ne staccò un morso, avvertendo il tenue profumo di bicarbonato.

«Jonil, il pane è semplicemente meraviglioso e i piccioni deliziosi!» Fu una lode spontanea, ma la sorprese la stanchezza che si avvertiva nella sua voce.

«Grazie, Marja», rispose la donna con un sorriso. Poi fece un gesto indicando le compagne intorno al tavolo. «Le mie Sorelle sono così abituate alla mia cucina, che a volte si dimenticano di dirmi se l'apprezzano.»

A quella uscita, due delle Rinunciatarie arrossirono e chinarono il capo sul piatto, imbarazzate. Ma Morall rise. «Nessuno mi dice che sono stata brava a catturare il cibo, allora perché a te dovremmo dire che è buono? Dovresti essere contenta che non ci lamentiamo.»

«Oh, no, Mora. Noi non oseremmo mai lamentarci, perché altrimenti Jonil metterebbe della fintamenta nello stufato e allora ci pentiremmo di aver aperto la bocca per parlare o per mangiare.» A parlare era stata una donna dalla pelle chiara, più o meno dell'età di Margaret, con un lampo di allegria negli occhi.

«Davvero lo faresti?» chiese Morall sporgendosi sul tavolo.

«Se fossi abbastanza arrabbiata, sì. E ci sono cose peggiori della fintamenta», aggiunse Jonil con aria sinistra, smentita dal lampo di malizia dello sguardo. «Un po' di densa vi farebbe schizzare giù da cavallo ogni due minuti, per andare a defecare.»

Risero tutte, tranne Morall, che aggrottò la fronte per un attimo, poi si rilassò. «Me ne ricorderò, nel caso mi trovassi con la diarrea.»

Finiti i piccioni, Jonil si alzò e andò a prendere il pentolone. Margaret scoprì di essere quasi sazia, ma prese ugualmente un po' di zuppa e la mangiò lentamente, riuscendo a finirla quasi tutta.

Con qualche fetta di formaggio e qualche mela, il pasto ebbe termine. Tutte si alzarono, di nuovo sospettose nei suoi confronti, e la lasciarono a tavola da sola. Margaret non le biasimava, anche se quell'atteggiamento la intristiva. Karis arrivò con un secchio, lo posò sul tavolo e cominciò a lavare le ciotole, canticchiando piano tra sé mentre lavorava.

Margaret ascoltò la canzone, e, per un riflesso condizionato, cercò di memorizzarla. La lingua era arcaica, ma la melodia era semplice; parlava di due sorelle, del loro amore e della loro dolorosa separazione. Margaret si concentrò per capire la storia, perché non l'aveva mai sentita prima di allora, né come racconto, né come canzone.

 

Alle canne e agli arbusti

delle ripide sponde del Valeron

dell'amata bredha Maris lei chiese.

Ai sassi e ai semi

delle alte sponde del Valeron

dell'adorata bredha Maris lei chiese.

Chiese all'acqua e alle foglie

e sentì solo:

al mare, al mare.

 

Le strofe si susseguivano le une alle altre come le onde del fiume e del mare, e colei che cercava chiedeva a tutti, animali o piante, dov'era andata Maris. Il canto aveva un ritmo ipnotico, come l'infrangersi delle onde sulla riva con la bassa marea, triste e sommesso. Fin dall'inizio, Margaret sapeva che la canzone avrebbe avuto un finale tragico. E all'ultimo verso, infatti, la sconosciuta sorella si gettava nella corrente impetuosa del fiume Valeron, lasciandosi trasportare nelle acque fredde del Mare di Dalereuth, chiamando Maris, senza ottenere risposta. Il ritornello, Ahm Maree, «al mare», che creava un'assonanza col nome Maris, fece venire i brividi a Margaret.

«Era bellissima», disse sottovoce, quasi senza volerlo.

«Eh? Ah, la canzone; la canto sempre quando rigoverno: si adatta a questo lavoro.»

«Sì, è vero.»

La panca le sembrava dura e scomoda, ora che la canzone era terminata, e le bruciavano gli occhi. Si alzò e barcollò fino al camino, lasciandosi cadere a fianco di Mikhail. Le calze erano davvero luride, ma non aveva la forza di togliersele.

Facendosi forza, controllò la forma priva di sensi: tutti i segni vitali parevano normali, solo la mente restava irraggiungibile. Eliaggiustò le coperte, e si sdraiò accanto a Mikhail, sentendo il calore del suo corpo e anche quell'inconfondibile odore di uomo che aveva avvertito in qualche occasione abbracciando il padre. Il pensiero di Lew la portò a chiedersi che cosa stesse succedendo a Castel Comyn, ma era troppo stanca per fare supposizioni.

Si voltò su un fianco e appoggiò la testa sulla spalla di Mikhail, restando così per qualche istante, assaporando quella sensazione di vicinanza, così nuova e nel contempo così giusta. Poi sollevò la mano e gli strinse il braccio sinistro, udì i braccialetti tintinnare e chiuse gli occhi. Dunque è questa la vita matrimoniale, pensò, e sorrise.

 

CAPITOLO 30

LA FINE DELL'ATTESA

 

Si svegliò di colpo, senza sperimentare il piacevole dormiveglia che si godeva di solito. Un attimo prima stava precipitando in uno spazio infinito, e l'attimo dopo fissava travi annerite affollate di piccioni che tubavano. Dove si trovava?

Voltò piano la testa e vide Marguerida accanto a sé che ronfava sommessa, immersa in un sonno profondo. Una babele d'immagini gli esplose nella mente: erba rosa, un gioiello enorme, una donna splendente e un uomo sdraiato su un divano. Varzil il Buono! Allora era davvero venuto nel passato e aveva parlato con l'antico tenerezu. E c'era qualcos'altro... Per un attimo Mikhail cercò di catturare un pensiero sfuggente, poi sentì il peso del metallo che gli circondava il polso e rammentò. Siamo sposati! Finalmente! Mia madre non ci perdonerà mai! Poi le esigenze del corpo interruppero i suoi pensieri.

Si mise a sedere di scatto, e venne colto da un capogiro. La vescica stava per scoppiare ed era affamato. Si alzò con cautela e si avviò barcollando alla porta, slacciando nel contempo le stringhe dei pantaloni. Riuscì ad allontanarsi di qualche passo dall'entrata, prima di liberarsi. Chiuse i pantaloni e rimase nel fango, con l'acqua che gli bagnava le calze. Si appoggiò a un muro, respirando lentamente, cercando di non essere costretto a sedersi nella pozzanghera.

Quando le gambe smisero di tremare, rientrò nell'edificio. Dove si trovavano? Varcata la porta, si rese conto che erano in un'enorme cucina, e neanche molto pulita. Perché dormivano in una cucina e perché lui aveva un vago ricordo di altre persone? Lì c'era solo Marguerida, ancora addormentata. Doveva esserselo sognato, di sicuro.

Si lasciò cadere su una panca accanto al tavolo e su un vassoio vide un pezzo di pane, del formaggio, qualche mela avvizzita, dell'uva passa e due piccioni arrosto. Rimase a fissare il cibo per un tempo lunghissimo, poi tese la mano e prese un pezzo di formaggio. Lo sentì salato e si accorse di avere la bocca arida. Sul tavolo c'era anche una brocca di legno e accanto una ciotola; vi versò l'acqua, ma gli tremavano talmente le mani che ne versò più sul tavolo che nella ciotola.

Poi bevve, lentamente, a grandi sorsate, assaporando per un istante il gusto dolce del liquido prima di deglutirlo. Gli pareva di ricordare qualcuno che gli sollevava la testa e gli versava in bocca un liquido disgustoso. Quand'era successo, e da dove venivano il formaggio e i piccioni arrosto? Marguerida non aveva di certo fatto il pane durante... una sola notte o molte notti? Aveva perso la cognizione del tempo, pensò rabbrividendo.

L'acqua gli aveva un po' snebbiato la mente, portandogli il ricordo vago di molte voci, tutte femminili, e di un lungo viaggio tutto a sobbalzi. Quello non se l'era di certo sognato. Ma dov'erano le persone che avevano parlato? Nella stanza non si udivano altri suoni che lo sbatter d'ali degli uccelli e lo scoppiettio del fuoco. Mikhail non riusciva a concentrarsi, così, invece di continuare a preoccuparsi, staccò una coscia dell'uccello arrosto e cominciò a mangiarla, alternando un boccone di carne a un sorso d'acqua. Pian piano, i morsi della fame si calmarono.

C'era qualcosa che doveva ricordare a tutti i costi, ma continuava a sfuggirgli. Dopo aver mangiato la coscia e un pezzo di petto, si sentì sazio e si versò un'altra coppa d'acqua. Forse piccione e formaggio non erano stati una buona idea, pensò, sentendo lo stomaco che gorgogliava.

Si alzò incerto sulle gambe e tornò barcollando verso il giaciglio, con le calze bagnate che facevano uno sgradevole risucchio sul pavimento di pietra. Il fuoco era ridotto alla sola brace e Mikhail vide dei ciocchi e dei rametti ammonticchiati accanto al focolare. Si lasciò cadere a terra vicino al camino e, con grande sforzo, riuscì a mettere dei rametti sulle braci. Rimase a guardarli prendere fuoco, finché non si accorse di avere freddo, un freddo terribile: doveva essere colpa delle calze bagnate. Lottò per toglierle, ma riuscì a sfilarne solo una, mentre l'altra rimase a penzolare dal piede.

Sentì le palpebre farsi pesantissime e la testa gli ciondolò sul petto; sprofondò nel dormiveglia e si riscosse di soprassalto. Fissò le fiamme e poi, con un gemito, cercò di far rotolare un ciocco più grande nel camino; quel caldo era meraviglioso e lui ne voleva ancora!

«Co...?»

Il suono della voce assonnata lo colse di sorpresa e le dita persero la presa sul legno, che rotolò sul piede nudo. Il dolore gli strappò un ruggito e alle sue spalle udì il fruscio di coperte che venivano scostate; un attimo dopo, Marguerida era china su di lui, pallida in viso.

Lo afferrò per le spalle e lui si appoggiò contro di lei, posando la testa sul suo petto e assaporando il calore della sua pelle. Che splendidi seni aveva sotto quella camicia da notte bianca, un peccato che lui non avesse la forza di fare altro che appoggiarvi la testa. E perché aveva i capelli raccolti in quell'acconciatura provocante, impudica? Stava cercando di farlo impazzire con la vista del collo flessuoso?

«Che stavi facendo?» gli chiese con voce preoccupata.

«La pipì», mormorò Mikhail; aveva di nuovo la mente annebbiata e parlare era difficile.

«Oh, capisco. Hai bisogno di riposare, Mikhail. Ecco, lascia che ti aiuti... dove sono le Sorelle?» Mikhail percepì la sua fitta di paura, poi lo sforzo che faceva per calmarsi.

Margaret lo aiutò a tornare al giaciglio, lo fece distendere, gli tolse la calza superstite e poi lo coprì. Lui la guardò aggiungere un ciocco al fuoco e poi andare al tavolo. I suoi movimenti gli parvero lontani, come se stesse guardando tutto da una distanza infinita. Lottò per scrollarsi di dosso quel senso di distacco, ma non ci riuscì.

Vide Marguerida osservare i resti di cibo sul vassoio, corrugare la fronte e scrollare le spalle. Poi tornò, s'inginocchiò accanto a lui e gli scostò i capelli dal viso. «Come ti senti?»

«Infreddolito. Debole. Stanco.» Lo sforzo per pronunciare quelle parole fu enorme.

«Non avrai freddo ancora per molto... hai la fronte calda e temo che tra non molto scotterà. Spero che abbiano lasciato ancora un po' di decotto febbrifugo. Vorrei che non ci avessero lasciati... Oh, Mik!»

«Chi?»

«Siamo stati soccorsi da una banda di Sorelle della Spada... almeno mi sembra che sia così che venivano chiamate. Immagino che Damila abbia pensato che era rischioso restare con noi. Maledizione.»

«Dove?» Aveva l'impressione che un peso immane gli schiacciasse il petto, sentiva la pelle gelata, e i muscoli in fiamme.

«Dove? Ah, dove siamo. L'hanno chiamata la vecchia rocca di El Haliene; Damila ha detto che era abbandonata e che la usavano solo le Sorelle. Ci siamo accampate qui, e loro hanno preparato da mangiare e... poi immagino che siano sgattaiolate via mentre dormivamo. Vorrei che non lo avessero fatto, anche se non so dar loro torto. Almeno ci hanno lasciato il cibo.»

«Mangiato.»

«Sì, l'ho visto.» Gli accarezzò la mano e Mikhail si accorse di avere la pelle tanto sensibile che anche quella carezza delicata gli procurò dolore. «Be', non ci resta che arrangiarci come meglio possiamo. Abbiamo acqua... ci deve essere un pozzo da qualche parte, e lo troverò. E abbiamo cibo, quindi non moriremo di fame.

Mikhail venne scosso da un brivido incontenibile e sentì la schiena inarcarsi; irrefrenabili spasmi muscolari gli percorsero il corpo, tanto dolorosi che non riuscì a reprimere un grido. In lontananza udì Marguerida trattenere il fiato e poi imprecare.

Il poco cibo che aveva mangiato gli tornò su e sentì un sapore amaro in bocca. Due mani forti lo afferrarono per le spalle e lo misero seduto, così non soffocò, e, miracolosamente, riuscì anche a non rigettare. Ma continuava a tremare, scosso dagli spasmi: tutte le giunture del suo corpo erano in fiamme.

«La tua mano», riuscì ad ansimare.

«Mikhail! La mia mano... che cosa?»

«Sotto di essa gli spasmi smettono.»

«Eh? Oh, sì, ma certo. Vedo che il braccio sinistro si contrae meno del destro. Mi chiedo...»

Sentì che il suo corpo veniva spostato e poi la mano sinistra di Marguerida si appoggiò sul suo petto. Mentre annaspava in cerca d'aria, percepì un sottile cambiamento nel proprio corpo, come se il suo cuore rallentasse a un ritmo normale, e vagamente si rese conto che Marguerida si serviva del proprio battito cardiaco per regolarizzare il suo e che usava la sua matrice per reincanalare le energie.

Che cosa gli stava succedendo? Di colpo, la sua mente gli presentò l'immagine di un gioiello splendente e rammentò tutto. Lui portava l'anello matrice di Varzil Ridenow! Sentiva il cerchio di metallo contro la pelle, mentre la pietra era premuta contro il palmo stretto a pugno! Choc da matrice!

Mikhail si costrinse ad aprire la mano, lottando per distendere le dita; poi, con i muscoli tormentati da terribili spasmi, girò il cerchio di metallo, portando la pietra nella parte superiore del dito. Gli parve di averci messo un'eternità, ma sapeva che non era stato così.

Subito il respiro si fece più profondo, e il battito del cuore tornò quasi normale. Sentiva Marguerida borbottare tra sé mentre muoveva la mano lungo il suo corpo; c'era panico nella sua mente, ma la sua volontà, il suo addestramento e soprattutto una feroce determinazione lo tenevano a bada.

Era una cosa stupenda, ammirevole, e una parte di lui desiderò fare altrettanto, unirsi a lei, per perdersi in quella bellezza e in quella forza. Nel contempo, si rendeva conto che Marguerida faceva qualcosa di estremamente poco ortodosso, che usava il suo laran in un modo che lui non aveva mai visto. Nessun controllore e nessun guaritore avevano mai fatto altrettanto. Si trattava forse di una delle innovazioni di Istvana?

Il fuoco che gli divorava i muscoli si attenuò e gli spasmi svanirono; ebbe la sensazione di trovarsi a galleggiare in un bagno caldo, un mare gentile che gli sosteneva il corpo. Era come precipitare in una canzone. L'energia gli lambiva i muscoli, non li torturava più.

«Che stai facendo?»

«Zitto!»

Mikhail obbedì, affidandosi a lei come mai in vita sua si era affidato a un'altra persona. Lei lo aveva già fatto una volta, vero?... quando lui aveva pensato che stesse cercando di soffocare Varzil.

I muscoli irrigiditi cominciarono a rilassarsi e Mikhail si sentì sfinito e incapace di pensare. In quel momento l'unica cosa importante era riposare.

Riposare! Una presenza gelida e spietata si agitò dentro di lui. Nascondersi dietro le gonne di una donna? Lasciare che sia lei a fare tutto? Il meraviglioso abbandono che stava avvolgendo il suo corpo scomparve di colpo, sostituito da una paura e da un disgusto travolgenti.

«Mik! Smetti di lottare contro di me!»

Quel grido gli giunse da molto lontano e Mikhail cercò d'ignorarlo: non voleva il suo aiuto, non voleva che lei lo guarisse, non poteva sopportare di essere in debito con lei più di quanto già non fosse. Lui era indegno della sua grandezza.

No, no... era Marguerida! Ma... ma era una donna, come Javanne, intrigante, manipolatrice, che lo faceva sentire indegno. E non gli avrebbe mai permesso di dimenticare che lo aveva salvato, vero? No, certo che no, le donne non cedevano mai. Sua madre non cedeva mai.

E lei era così bella, così meravigliosa. Lui non poteva starle a pari, nessun anello lo avrebbe mai reso suo uguale, era un confronto che non poteva vincere!

Mikhail guardò dentro di sé e scorse un viso contorto, il viso più triste e famelico che avesse mai visto. Eppure quel volto desolato, disperato, che lo guardava, era il suo stesso volto. Lui lo odiava, odiava la sua debolezza... che spettacolo miserevole! Quanto meglio sarebbe stato se fosse morto!

Sotto il disgusto e la repulsione, da un angolo del suo animo che non credeva esistesse, scaturì un brandello di compassione, così fragile che si accorse appena del sottile sentiero di calore che creava nel gelo della sua anima. Povera cosa, tutta sola, al buio... Povero Mikhail, indegno della considerazione di sua madre, del suo affetto, indegno di prendere il posto di Regis. E di sicuro ancor meno degno di portare quel gioiello.

Il dolore gli schiacciò il petto e, di colpo, il suo doppio triste e oscuro fu disteso sopra di lui, come un amante; ne sentiva il respiro caldo e fetido sulla guancia. Cercò di lottare, di liberarsi del peso di se stesso; da anni combatteva quel mostro doloroso e non era mai riuscito a vincerlo. Tanto valeva darsi per vinto e lasciare che gli risucchiasse il respiro, perché lui era troppo stremato per lottare ancora.

E in quel momento lo spettro scomparve e un altro viso fluttuò sopra di lui; era il viso di un uomo vecchio, saggio e nobile, i cui occhi lo fissavano con una compassione infinita che gli faceva male e nel contempo lo infastidiva. Lui non voleva pietà... lui conosceva se stesso! Ma gli occhi azzurri di Varzil non gli davano tregua.

«Ho troppi difetti: non posso portare ciò che mi hai dato!»

«Tutti abbiamo dei difetti, Mikhalangelo. E tu possiedi la forza di portare quella matrice, se solo volessi essere un po' meno severo con te stesso.»

«Meno severo! Non ho già abbastanza debolezze senza aggiungerci anche questa?» C'era tutto il disgusto e la rabbia verso se stesso in quelle parole.

Il viso severo sorrise. «Figlio mio, tu t'imponi dei limiti che spaventerebbero anche un dio. La più piccola imperfezione in te s'ingigantisce fino a diventare un fallimento insopportabile. Non senti il peso di queste cose che ti schiaccia?»

«Sì!»

«Sul tuo cuore grava un peso dieci volte più grande del Muro intorno al Mondo, Mikhalangelo. Basta! Quello a cui ti ostini ad aggrapparti non è un tesoro, ma solo un mucchio di spazzatura.»

«Spazzatura?» Bel modo di descrivere la sua sofferenza.

«I piccoli difetti trasformati in fallimenti insopportabili sono la spazzatura della mente. Lascia andare quel mostro in cui hai trasformato te stesso. Sei degno della tua Margarethe, ma non solo: sei degno di te stesso!»

«Lo sono?»

«Devi fidarti del mio giudizio.»

Mikhail lottò per un tempo interminabile, ma alla fine si lasciò andare: lottare con se stessi aveva un costo troppo alto, ed era sciocco.

Ondate immense di emozioni lo travolsero... luce e ombra, bene e male. Non aveva mai sospettato che in lui albergassero tanti sentimenti e neppure che fossero così potenti. Gli scorrevano dentro, mescolandosi, finché non riuscì più a distinguerli l'uno dall'altro e allora si lasciò cadere in quel turbine di paure e desideri, logori e antichi, annegando nella disperazione e nella speranza insieme. Era meglio così.

Sentì il suo corpo venir meno, il cuore che cessava di battere e il sangue di scorrere nelle vene e allora attese la morte, la accettò, e, senza imbarazzo, pianse per se stesso. Tra poco tutto sarebbe finito, ma almeno lui sarebbe morto integro, non a brandelli.

«Maledizione, Mik! Non abbandonarmi, adesso!» Sentì un violento ceffone sul viso, un bruciante contatto di carne contro carne, che fu come una secchiata d'acqua pura e rinfrescante.

Un pugno gli batté contro il petto: il suo cuore diede un battito e l'angoscia scomparve, ma il suo ricordo fu come il gusto del sale sulla lingua. Era sdraiato con la testa sul grembo di Marguerida e una donna molto, molto arrabbiata lo guardava; la fronte era imperlata di sudore, qualche ciocca di capelli era sfuggita alle forcine, conferendole un'aria scarmigliata. Gli occhi dorati erano come due fiamme.

«Ahai», si lamentò Mikhail, massaggiandosi lo sterno. «Mi hai fatto male.»

«Bene! Se riprovi un'altra volta con un arresto cardiaco, ti farò ancora più male!»

«Non stavo provando un arresto cardiaco», borbottò lui sentendosi ferito e incompreso. «Da come lo dici, sembra che l'abbia fatto apposta.»

La risata di Marguerida fu tremula. «Forse hai ragione, ma mi hai fatto invecchiare di dieci anni, per lo spavento e... be', è una cosa che mi fa arrabbiare!» Una lacrima spuntò sul suo viso, scivolando sulla guancia. «Fino ad adesso la nostra vita matrimoniale è stata terribile», borbottò.

Marguerida venne scossa dai singhiozzi e Mikhail non poté far altro che accarezzarle stupidamente la mano, mormorando frasi senza senso, perché non aveva neppure la forza di confortarla. Ma in quello che aveva detto c'era qualcosa che non capiva e dopo un minuto chiese: «La nostra vita matrimoniale?»

I singhiozzi cessarono di colpo, trasformandosi in colpetti di tosse, e Marguerida gli afferrò il braccio perché vedesse il cerchio di metallo che gli circondava il polso. «Vuoi dire che non ricordi di aver promesso di servirmi per tutta la vita, testa di legno?»

«Ho fatto una cosa simile?» Era tutto molto vago e confuso, però gli pareva di rammentare una specie di promessa. Ma «servirla»? «Perché non ricordo? Ero ubriaco?»

«Hai bevuto solo dell'acqua! Non provocarmi, Mikhail Hastur, ho i nervi troppo a fior di pelle per sopportarlo. Non ricordi proprio niente? Varzil che ci sposava e... lei?»

«Lei chi?»

Marguerida esitò prima di rispondere. «Evanda, credo,»

In un lampo Mikhail rivide un volto di donna, bellissimo e luminoso, risentì l'odore di pietra e stufato e una voce che parlava. Rammentò il peso del braccialetto che gli veniva messo al polso e Marguerida che diceva: «Con questo anello...» Poi la realtà era scomparsa e lui si era ritrovato a vagare in un luogo privo di luce.

«Oh, Mik, ero così spaventata per te! Non ricordi proprio nulla?»

«Mi sembra tutto molto confuso, però, sì, la donna la ricordo.» Sospirò e poi riprese: «Comunque, Amos non crederà mai a questa storia».

«Amos?»

«Non ricordi il nostro immaginario nipote?»

«Oh, sì!» esclamò Marguerida sommersa dal sollievo. «Pfui! Da come sono andate le cose fino ad adesso, dubito che avremo dei figli... figuriamoci poi dei nipoti!» Arrossì e distolse il viso.

«Povera Marguerida. Dopo che mi hai messo quell'anello al dito non ricordo più nulla. È come se fossi caduto dalla fine del mondo o qualcosa di simile.»

«Nemmeno io sono completamente sicura di ciò che è accaduto; so solo che l'edificio è scomparso - però non credo che sia mai esistito davvero, Mik - e ci siamo ritrovati seduti sotto la pioggia. Tu eri svenuto; sono riuscita a trascinarti sotto un albero, ma il riparo era misero e continuavamo a bagnarci. Ho creduto d'impazzire. Così, da quella persona di buonsenso che sono, ho deciso di tentare un esperimento di scambio di calore, e per poco non ho mandato arrosto tutti e due. Se prima non lo avevo capito, adesso so perché è pericoloso sapere poco.»

«Ma come siamo arrivati qui?»

«È stato il corvo.»

«Eh?»

«No, non voglio dire che ci ha portati qui in volo; è andato a cercare aiuto e ha trovato una banda di Sorelle della Spada. Loro ti hanno caricato su una barella e siamo venuti in questo posto.» Con un sospiro, guardò la cucina avvolta nell'ombra. «Credo che abbiano deciso che era troppo pericoloso stare con noi e così sono sgattaiolate via mentre dormivamo. Come abbiano fatto non lo so, ma ero così stanca che probabilmente sarebbe potuto passare un intero esercito senza che lo sentissi. Immagino che abbiano lasciato i nostri cavalli nella stalla.»

«Capisco. Mi spiace di...»

«Non fare lo stupido! Non è colpa tua se ti sei ammalato! È solo che ho quasi perso il senno per la preoccupazione e in momenti come questi tendo a prendere tutto molto sul personale. Non è un atteggiamento costruttivo, ma non posso farne a meno. Forse», proseguì corrugando la fronte, «ce l'ho nel mio patrimonio genetico, perché il Vecchio fa la stessa cosa. Oh, come vorrei che fosse qui, ora! Diavolo, sarei addirittura felice di vedere tuo padre! O tua madre, o persino Gisela Aldaran, o il mio tutore dell'università, che era un seccatore incredibile.»

«Amore, spiegami che cos'hai fatto su di me. Non ho mai sperimentato nulla di simile, prima d'ora.»

«E difficile spiegarlo con esattezza, perché ti confesso che lavoravo a intuito, come se stessi componendo un pezzo musicale.» S'interruppe e rifletté per qualche secondo. «Direi che quello che ho fatto è stato darti una bella strigliata.»

«Una strigliata?»

«Come con i cavalli, una strigliata al pelo. Ho pettinato i nodi e i grovigli che c'erano dentro di te con la mia matrice.» S'interruppe per un po', poi riprese: «Quando ho preso la matrice di Varzil per dartela, l'ho toccata per un istante e in quel momento ho appreso qualcosa che non ho ancora avuto il tempo di capire, ma credo che si tratti del modo per operare le guarigioni. Non ho mai smesso d'imparare a usare questa maledetta cosa, quando ho ucciso i banditi e quando ho liberato i canali di Varzil, ma erano sistemi un po' rozzi... Come ti senti?»

«Indolenzito. Stanco. Ma anche libero, rigenerato. Tutto quello che mi serve è dormire per una settimana, una gran quantità di cibo, un bagno e abiti puliti. Come mi sento è già spiacevole, ma come puzzo... beeh!»

«Puzziamo tutti e due come capre. E scommetto che non c'è un bagno nel raggio di cento miglia. E a meno che non riesca a catturare altri piccioni, tutto il cibo che abbiamo è su quel tavolo.»

Mikhail sentì le palpebre farsi pesanti e capì che stava per addormentarsi. «Finora non ho provveduto granché ai bisogni della famiglia, caria. Perdonami.» E in pochi secondi si addormentò.

 

Lo svegliò una voce che cantava. Mikhail passò dal sonno alla veglia lentamente; le note argentine sembravano far parte di entrambe le cose. Rimase immobile ad ascoltare e sotto le parole sentì il fruscio ritmico di una scopa sulle pietre, il tubare degli uccelli sul soffitto e lo sgocciolio della pioggia.

Con molta cautela, si mise a sedere; aveva caldo, ma non aveva la febbre e, dall'umidità appiccicaticcia degli abiti, capì che doveva aver sudato parecchio nel sonno. Si guardò intorno e vide Marguerida dall'altra parte della cucina: si era tolta la camicia da notte bianca e indossava solo la camiciola e la sottogonna; i capelli erano raccolti in un pezzo di stoffa, che lasciava scoperta la nuca. Era una cosa che una donna darkovana non avrebbe mai fatto e Mikhail si stupì di quanto fosse erotico e soprattutto dell'immediata risposta del suo corpo.

Era serena e composta, e questo lo stupì; ma forse, dopo tutto quello che avevano passato, scopare un pavimento era un gradevole diversivo. «Che cosa stai cantando?» chiese senza alzare la voce per non spaventarla.

«Che cosa? Oh, sei sveglio!» Si voltò con un sorriso e a lui parve la donna più bella che avesse visto in vita sua. «È solo una vecchia canzone di voga di Teti, che si canta per dare il tempo ai rematori.»

«È graziosa. Ma perché scopi?» chiese indicando i piccioni sopra la loro testa. «Tanto fra un attimo sarà di nuovo tutto sporco.»

«Finché restiamo qui, vorrei che questo posto fosse abitabile», ribatté un po' seccamente. «Mentre dormivi ho trovato il pozzo, scoperto quel che resta della dispensa e scovato un pentolone di discrete dimensioni. Ho scaldato dell'acqua, così potrai lavarti.»

«Perfetto, ne ho proprio bisogno!»

«Io l'ho già fatto ed è fantastico.» In quel momento Marguerida parve accorgersi di essere vestita in modo poco modesto e, dopo essersi guardata, scrollò le spalle. «Ho trovato anche dell'altra legna, così non avremo freddo.»

«Ottimo.» Mikhail si accorse dell'imbarazzo che c'era tra loro, la tensione impercettibile di due persone che, per quanto unite dal vincolo matrimoniale, non erano ancora veramente sposate. Non era necessario essere telepatici per sapere che lei era a disagio, ma lo era anche lui. No, non a disagio, ma timido.

Mikhail non aveva più provato timidezza di fronte alle donne da quand'era un adolescente e quella sensazione lo sconcertò; poi si rese conto che lei non era una donna qualsiasi, ma la donna che lui amava, ed era questo che faceva la differenza. Non poteva sedurla come se niente fosse, perché sapeva che entrambi avrebbero ricordato la loro prima volta per tutta la vita. Doveva essere tenero e gentile, ma soprattutto paziente, e tenere a freno il suo desiderio.

Scostò le coperte e si avvicinò al focolare, dove trovò un pentolone di metallo pieno di acqua calda con qualcosa che galleggiava in superficie. Annusò diffidente e sentì profumo di lavanda e di saponaria. Ma dove le aveva trovate?

Si tolse la tunica sporca e la camiciola, poi si slacciò i pantaloni e vide che c'era un pezzo di stoffa, lì vicino, ancora umido. Mentre cominciava a lavarsi, rifletté sulle capacità di adattamento di Marguerida. Non riusciva proprio a immaginare Gisela Aldaran, o qualunque altra donna della sua classe sociale, che scopava i pavimenti o faceva il bucato. Sapeva, perché era stata Marguerida stessa a dirglielo, che era vissuta in condizioni primitive su parecchi mondi, aveva abitato in capanne di frasche, indossando soltanto piume o fiori, mangiato carne cruda e fatto una gran quantità di cose per lui difficili da immaginare. Probabilmente aveva scopato anche il pavimento di quelle capanne.

Era quella una dimensione di Marguerida che non aveva mai considerato prima e che ora non sarebbe stato in grado di rispettare come meritava se non avesse lui stesso trascorso quel tremendo periodo a Halyn, spalando il letame nelle stalle e aggiustando finestre rotte. Un'umile scopa, ne era certo, non aveva mai occupato le mani di sua madre o quelle di Gisela, perché c'erano sempre i servi per quelle cose, e ancora una volta si rese conto di quanto fosse stato privilegiato.

L'acqua profumata di lavanda gli lavò la pelle, facendo scomparire l'odore sgradevole del sudore. Si sentì molto meglio, anche se aveva un buco nello stomaco.

«Sono uscita quando la pioggia ha smesso per un po'», disse Marguerida interrompendo le sue riflessioni, «e ho fatto una ricognizione. I cavalli sono in una stanza che un tempo doveva essere un magazzino e le Sorelle hanno lasciato abbastanza foraggio per un paio di giorni e l'acqua non manca. Quindi, appena te la sentirai di cavalcare, credo che dovremo metterci in viaggio. Di sicuro dovremo andarcene non appena terminerà il cibo.» Sembrava stanca e preoccupata.

«Sì, lo so.» Finì di lavarsi, prese la camiciola, la mise nel pentolone e la strofinò tra le mani. L'anello s'impigliò in un laccio e lui pensò, divertito, che probabilmente Varzil non aveva mai fatto il bucato. Staccò l'anello, tirò fuori la camicia e, dopo averla strizzata più che poteva, la appese a un gancio accanto al camino, ad asciugare. Mentre dormiva, Marguerida gli aveva tolto le calze, le aveva lavate e appese ad asciugare accanto alle sue. Era un gesto tenero che gli comunicava calore, e per la prima volta non si risentì di avere qualcuno che si prendeva cura di lui.

Accanto al focolare c'era un secchio di legno, pieno d'acqua; Mikhail vuotò il pentolone sul pavimento di pietra e lo riempì con l'acqua del secchio, rimettendolo a scaldare. Svolgere quel semplice compito gli procurò un piacere inaspettato: se anche tutto il resto fosse stato tanto semplice! Soddisfatto, si voltò e chiese: «Dov'è il nostro amico corvo?»

«Era con i cavalli, e credo che stia attuando una diminuzione della popolazione di topi. Non sapevo che i corvi cacciassero, ma quell'uccello è davvero speciale, in molti sensi.» Smise di scopare, appoggiò la scopa alla panca a lato del tavolo e si sedette di colpo, pallida in viso.

«Che c'è?»

«Ashara! La sento: sta cercando qualcosa... non una cosa specifica, credo. Ma è come se qualcuno avesse appena camminato sulla mia tomba.»

Mikhail si sedette accanto a lei, prendendole la mano destra, e i braccialetti si toccarono, tintinnando. «Vorrei dirti che ti proteggerò da lei, ma in realtà non so se ne sarò in grado.»

Marguerida scosse il capo, si tolse il fazzoletto di stoffa e con questo cercò di pulire gli sbaffi di polvere che aveva sulle guance, ma riuscì solo a peggiorare le cose. «Non sono più una bambina, come quando mi ha oscurata, e ora ho questa» disse, piegando la mano sinistra. «Vedi, il fatto è che lei potrebbe uccidermi, ma io non oso uccidere lei, perché questo cambierebbe tutto. Ho riflettuto mentre scopavo: dobbiamo essere invisibili come i topolini nei muri, così non si accorgerà della nostra presenza.»

Mikhail le mise un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé. «Il fatto di avere l'anello di Varzil non facilita le cose: mi sento come un faro nella notte.»

«Lei non si aspetta te, Mikhail. E poi l'anello non è più di Varzil: è in parte suo e in parte tuo... è qualcosa di nuovo. Vorrei solo sapere per quanto dovremo nasconderci, e come potremo farlo.»

«Forse a questo posso rispondere io, ma sospetto che non ti piacerà molto. Mentre dormivo, ho sognato, e nel sogno ho fatto una chiacchierata con Varzil... almeno questo è quanto ricordo. Tra quaranta giorni, se non ho capito male, dobbiamo essere alla rhu fead. Di lì in poi, tutto diventa vago.»

«Quaranta giorni?» esclamò allibita. «Quaranta... E nel frattempo che dovremmo fare? Girare i pollici?» La voce era acuta e Mikhail sentì la giovane donna tremare. Si rese conto allora che i suoi nervi erano più scossi di quanto aveva creduto e che la sua calma era solo apparente.

«Nemmeno Varzil può comandare le lune, amor mio.»

«Maledette le lune e maledetto Varzil! Prima di allora Ashara mi troverà. Non possiamo nasconderci là fuori e moriremo di fame.»

«Hai ragione, dovremo andarcene presto di qui.» S'interruppe alla ricerca delle parole giuste con cui proseguire. «Non è facile da dire, ma... Marguerida, io credo che stia cercando una fanciulla, non una donna.» Attese per vedere se aveva capito che cosa intendeva.

«Come? Oh, capisco, tu pensi che dovremmo... allora io sarei diversa! Mikhail Hastur, questa è la proposta meno romantica che mi è mai capitato di sentire. Non che mi aspettassi rose e violini, ma...» S'interruppe, con una smorfia indispettita, ma un lampo di malizia negli occhi.

Lui le scostò i capelli arruffati e le sfiorò la fronte con le labbra. Poi cominciò a togliere le forcine dai capelli e la massa di riccioli setosi gli scivolò tra le dita. Erano secoli che voleva farlo. «Non posso darti rose, ma il mio cuore te l'ho già dato, Marguerida», le sussurrò. Sentiva la sua paura, ma avvertiva anche le prime timide avvisaglie di eccitazione. Il suo profumo e la sensazione della sua pelle morbida sotto le dita gli stavano facendo perdere la testa, ma sapeva che doveva trattenersi, procedere per gradi, perché lei non si lasciasse prendere dal panico.

Marguerida ridacchiò contro il suo collo e lui sentì il suo respiro caldo che lo solleticava. «Come inizio non c'è male... continua.»

«Sei anche la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto.» Lei non si mosse e lui capì che non erano quelle le parole giuste. «Sei la donna più bella che abbia mai visto. Amo il modo in cui i tuoi occhi brillano alla luce del fuoco, amo i tuoi capelli che non sono mai in ordine. Dal primo momento in cui ho posato gli occhi su di te, Marguerida Alton, ho desiderato strapparti i vestiti di dosso e farti mia! La curva della tua bocca accelera i battiti del mio cuore: quando sorridi, fa un balzo di gioia, quando piangi, si spezza di dolore. Sono secoli che voglio fare questo», sussurrò scostandole i capelli dalla nuca e sfiorandole la pelle setosa.

Sentì la tensione del suo corpo, la rigidità delle sue membra, lo sforzo che faceva per non lasciarsi trascinare, ma, nel contempo, sentiva la sua carne rispondere, con un desiderio dolce, incerto, ma reale. Sentì la mano sinistra di lei sfiorargli il petto nudo, dolcemente, come se avesse paura.

Marguerida parve accorgersi all'improvviso di quello che stava facendo, e sollevò la mano, staccandosi da lui. Guardò la sua mano, spalancando gli occhi, poi appoggiò delicatamente il palmo contro il suo petto. Mikhail si aspettava quasi di sentire una scossa, invece nella sua carezza avvertì solo un brivido di laran, come se avesse oltrepassato il velo.

«Sei l'unica persona che posso toccare senza pericolo per nessuno dei due», disse e nella sua voce c'era uno stupore infinito. «Non l'avevo neppure sospettato. Mi chiedo...»

«Chieditelo dopo, tesoro.»

Marguerida gli mise le braccia intorno al collo e premette la bocca contro la sua, baciandolo come se non avesse fatto altro in tutta la vita. Si staccarono, entrambi senza fiato, e si alzarono all'unisono, tenendosi per mano.

Si lasciarono cadere sulle coperte, baciandosi e accarezzandosi. Mikhail era quasi sopraffatto dal bisogno del suo corpo, ma si rifiutò di lasciarsi dominare. Le sfiorò un seno con le labbra e la sentì ansimare, eccitata. Allora la baciò piano, dal seno ai fianchi, e la sentì tremare sotto il suo tocco.

E allora, come travolgendo un'invisibile barriera, la passione che le era stata negata per tutta la vita proruppe, avvolgendo la mente e il corpo di Mikhail, calda e irrefrenabile, incerta e tuttavia esigente. Vi fu una resistenza quasi impercettibile e poi un abbandono quale mai avrebbe osato sognare.

 

CAPITOLO 31

LA TORRE DI EL HALIENE

 

Due giorni più tardi, sotto una pioggerellina insistente, abbandonarono l'edificio in rovina, diretti a sud. Avevano finito il cibo e anche il foraggio per i cavalli, ed era questo che li aveva costretti a muoversi. Mikhail sorrise pensando alla smorfia maliziosa di Marguerida quando aveva detto: «L'amore non ci riempirà lo stomaco... Per quanto possiamo cercare di farlo spesso».

Mikhail era stupefatto dal cambiamento avvenuto in lei dopo quel primo ardente accoppiamento; l'unico aggettivo che gli veniva in mente era «scostumata». Non aveva mai sospettato che possedesse tanta immaginazione e tanta candida malizia. Ed era sua, solo sua... se prima non lo sfiniva. E ci aveva provato.

Ma erano anni che lui non si sentiva così, come se il matrimonio con Marguerida avesse colmato una specie di mancanza che non sapeva di avere. Se fosse riuscito a risolvere il problema di come sopravvivere fino al momento di fuggire dal passato, sarebbe stato pienamente felice. Non aveva un piano preciso e questo lo disturbava; era come se si sentisse trascinato verso una meta invisibile, come se il suo destino fosse ancora incompleto. Non permise a quei sospetti di metterlo di cattivo umore, ma nella sua mente cominciò comunque a prendere forma un'oscura preoccupazione.

Marguerida emise un gemito, distraendolo dalle sue riflessioni. «Che c'è?»

Da sotto il cappuccio del mantello, lei gli rivolse un sorriso radioso e il suo cuore fece un balzo. «Non lo so: mi sento un po' strana... stordita. E ho fame e nausea allo stesso tempo. Forse l'ultimo piccione non era più buono o forse il pane era andato a male. Ma non è nulla.»

«Io mi sento benissimo, quindi non può essere stato il cibo. Stai forse per prendere qualche malanno?» Era molto improbabile, perché Mikhail sapeva che le vaccinazioni che aveva fatto prima di venire su Darkover erano quasi miracolose.

«No, non credo. In realtà, mi sento indolenzita», disse arrossendo. «E ho il seno sensibile.»

Mikhail pensò ai suoi seni meravigliosi e si eccitò, cosa molto scomoda in groppa a un cavallo... e poi la sua libidine avrebbe dovuto essersi calmata! Era stato troppo rude, forse? «Mi spiace, caria.»

«Non credo che sia stato qualcosa che abbiamo fatto noi, tesoro.» Sospirò, felice. «Be', forse ci abbiamo messo un po' troppo entusiasmo. So solo che mi sento diversa; non mi sono mai sentita così in tutta la vita. Quando ho toccato l'anello di Varzil, ho sentito qualcosa cambiare dentro di me. E quando abbiamo fatto l'amore, è cambiato di nuovo. Immagino che sia solo questione di aspettare che il mio corpo si adatti, com'è avvenuto quando mi sono ritrovata con la mia matrice. In questi mesi mi sono successe parecchie cose, sai.»

«Sì, direi proprio di sì.» Non c'era altro da dire. Mikhail s'interrogò sul proprio corpo, consapevole che accettare la matrice di Varzil lo aveva cambiato in modi che doveva ancora scoprire. Avrebbe voluto poter consultare qualcuno, perché Marguerida non ne sapeva molto più di lui; forse la cosa migliore era tornare a Hali e vedere se Amalie El Haliene aveva qualche risposta a domande molto difficili. Poi scosse il capo: no, aveva la sensazione che non fosse la cosa giusta da fare.

Cavalcarono in silenzio per un po', attraversando un'altra distesa di terra nuda, senza vedere altro che piante contorte e deformi. Di fronte a quell'ennesima dimostrazione della follia dei suoi antenati Mikhail provò una profonda tristezza per il suo mondo e si chiese stupefatto come fosse riuscito a sopravvivere alle Ere del Caos.

Davanti a loro, appena al di là dell'area devastata, c'era un boschetto di conifere e Mikhail si chiese com'era possibile che terra sana e terra contaminata potessero trovarsi a così breve distanza l'una dall'altra. La pioggia attutiva ogni suono e lui cercava disperatamente di cogliere il cinguettio di un uccello.

C'era troppo silenzio! Il suo desiderio di trovare riparo sotto quegli alberi venne fugato da un'improvvisa sensazione di pericolo. Guidò il cavallo verso sinistra per passare all'esterno del gruppo d'alberi e Marguerida lo seguì senza fare commenti.

Mikhail guardò il corvo appollaiato sul pomo della sella: il grande uccello era chino in avanti, con gli occhietti rossi che brillavano vigili. Era un peccato che lui non possedesse il laran per parlare agli animali, perché sapeva che i sensi del corvo erano molto più acuti dei suoi.

Senza preavviso, otto uomini armati uscirono al galoppo dal bosco, spronando le cavalcature col chiaro intento d'intercettarli. Erano tutti vestiti di grigio, con alamari dorati, elmetto di metallo, spade al fianco, e cavalcavano con la precisione di una truppa addestrata.

In un attimo, circondarono lui e Marguerida e si fermarono. Mikhail scorse dei volti cupi, privi di espressione. Gli uomini non parlarono, rimasero in sella muti, con lo sguardo fisso davanti a sé. Erano tutti identici.

«Mikhail, non sono umani.»

«Che cosa?»

«Non possono esserlo, non riesco a leggere le loro menti, non c'è la più piccola scintilla di energia umana.»

«Che cosa credi che siano?»

«Probabilmente dei cloni di qualche genere. O dei robot, solo che sono di carne e sangue, non di metallo. Non so.»

In quel momento un altro cavaliere uscì dal folto d'alberi, interrompendo il loro scambio mentale, e gli otto cavalieri aprirono un varco, per lasciarlo passare. Era un uomo magro e pallido e, nella luce rossastra che filtrava dalle nuvole, gli occhi avevano una sfumatura ambrata. Mikhail lo giudicò sulla trentina e dall'eleganza degli abiti capì che doveva essere un nobile

L'uomo tirò le redini del cavallo e li fissò a lungo senza parlare; guardò i loro mantelli, come se qualcosa in essi lo disturbasse, e la sua bocca si piegò in una piccola smorfia. «Saluti», disse poi, con voce priva d'inflessione, e la freddezza di quell'unica parola fece correre un brivido lungo la schiena di Mikhail.

«Bentrovato, vai dom», rispose.

«Sono Padriac El Haliene.» Spostò lo sguardo dall'uno all'altro e poi sollevò un sopracciglio alla vista del pesante braccialetto al polso di Margaret; sul suo viso altezzoso comparve un'espressione perplessa, come se si fosse aspettato qualcosa di diverso da quello che si trovava davanti. «Da dove venite?»

«Dal nord.» Era abbastanza vero. Mikhail e Marguerida avevano discusso che cosa dire alle persone che avrebbero potuto incontrare e avevano cercato di costruire una storia che reggesse a qualche domanda superficiale. Lei aveva scelto di essere Marja Leyner, e Mikhail aveva scelto come nome Danilo. Ma Danilo chi? Per quanto si fosse sforzato, non era riuscito a scegliere un cognome.

Dom Padriac rimase in silenzio per qualche istante e Mikhail ebbe la netta sensazione che non stesse riflettendo, bensì parlando con qualcuno. «Siete leroni al servizio di chi?» La domanda fu posta in tono perentorio.

Mikhail esitò, incerto sulla risposta; fino a quel momento non si era reso conto di quanto fossero diverse le Ere del Caos, perché quel genere di domanda non sarebbe mai stata posta nella sua epoca. La formula usata da Dom Padriac sottintendeva possesso, non fedeltà, e implicava che il solo fatto di avere il laran faceva di loro una sorta di oggetto da possedere,

«Mik, lui è quello che ha portato via da Hall i compagni di Amalie, ne sono sicura! E c'è qualcun altro...»

«Chi servite?» sbraitò Dom Padriac,

Mikhail continuò a tacere, riflettendo su quello che aveva detto Marguerida. Allora avvertì una sottile pressione nella mente ed ebbe l'impulso quasi irresistibile di rivelare il suo nome. Fu una cosa ributtante, che gli rammentò Emelda. Un incantesimo di verità! Mikhail represse un brivido e si costrinse a restare calmo; era una forma di coercizione quasi sconosciuta nella sua epoca, ma lui ne aveva sentito parlare quand'era ad Arilinn.

Un piccolo asino trotterellò ragliando fuori degli alberi; a cavalcioni c'era una donna che quasi sfiorava con i piedi il fango del terreno. Si avvicinò a Padriac e gli scoccò un'occhiata furibonda.

Lui la ricambiò con odio e, sollevando il frustino da cavallo, la colpì tra le spalle. La spessa lana del mantello attutì il colpo, ma la donna rischiò comunque di scivolare dalla sella. «Cagna incompetente! A chi appartengono? Perché non riesci a farli rispondere?» La piccola leronis non rispose e rimase triste e infelice con la pioggia che le scorreva sul viso rotondo.

«Non ha importanza», sibilò poi. «Sono abbastanza forti da essere utili per il lavoro.» Guardò Mikhail e spalancò gli occhi; poi scosse il capo, come per allontanare un pensiero che la turbava e che la sua mente si rifiutava di accettare.

Prima che Mikhail potesse capire il perché di quello sguardo, Marguerida parlò. «Mik... ho di nuovo uno di quei miei maledetti lampi di precognizione... I nostri destini sono chissà come legati a quella buffa donnetta e anche a Dom Padriac. Quindi per il momento assecondiamoli.»

«Pensi che abbiamo altra scelta?»

«No. Quegli uomini - be', non sono proprio uomini - ci catturerebbero. E la donna non smette di cercare di entrare nella mia mente e anche nella tua. È molto curiosa nei nostri confronti, ma è troppo terrorizzata da lui per osare dire qualcosa.»

«Lo so.»

Sbuffando, Dom Padriac scrollò le spalle, poi disse: «Eseguirete i miei ordini senza ribattere: sono stato chiaro?» E voltò il cavallo prima che potessero rispondere, come se fosse scontato che avrebbero obbedito senza fiatare.

Rassegnato per il momento, Mikhail spronò il cavallo e nello stesso istante si rese conto che il corvo era scomparso e si chiese dove fosse andato. Poi, mentre passavano accanto al boschetto, scorse una sagoma scura nel folto di un albero e un lampo di penne chiare. Il corvo era in grado di badare a se stesso, almeno lui.

 

Dopo una cavalcata di due ore giunsero in vista di un castello di proporzioni tali da suscitare la meraviglia, ma anche la disperazione, di Mikhail. Non aveva mai visto una fortezza simile su Darkover; ma quello che più lo colpì fu il pensiero di non sapere neppure dell'esistenza di resti di un posto come quello. Certo, lui non aveva esplorato tutto il Regno di Elhalyn, ma era sicuro che, se fossero esistite rovine di un castello del genere, ne avrebbe almeno sentito parlare; nemmeno usandolo come cava di pietre per centinaia di anni i contadini avrebbero potuto farlo sparire del tutto.

Questo poteva solo significare che la fortezza era andata completamente distrutta, spazzata via dalla storia e dal ricordo. Guardando le due enormi Torri che si ergevano sopra il muro di cinta e senza neppure l'ausilio del Dono degli Aldaran, ebbe la certezza assoluta di essere destinato ad avere parte nella distruzione di quel luogo. Varzil li aveva fatti arrivare nel passato solo per farli morire lì?

Marguerida aveva il volto seminascosto dal cappuccio del mantello, ma lui riuscì ugualmente a scorgere la sua espressione decisa e percepì la concentrazione della sua mente: si stava difendendo dalla leronis, ma c'era qualcosa di più. Che cosa? Cercava di nascondere il suo laran, come l'anello che aveva al dito era in grado di nascondere la sua stessa presenza.

Mikhail si guardò la mano coperta dal guanto, che celava l'anello: riusciva a percepire il potere che racchiudeva, ma non era ancora in grado di usarlo. Ancora. Tutte le volte che si addormentava, Mikhail aveva la percezione della presenza della matrice, come se questa avesse una voce e gli parlasse; e ogni volta che si svegliava, si sentiva confuso, con la mente affollata di troppe informazioni per riuscire ad afferrarle tutte. Ci sarebbero voluti anni, lo sapeva, per comprendere appieno la natura di ciò che gli era stato donato; ma prima doveva sopravvivere a quello che li attendeva dietro quelle mura impenetrabili e poi arrivare in tempo alla rhu fead con Marguerida. Era una prospettiva sconfortante, che lo stomaco vuoto e gli abiti bagnati rendevano ancor più desolata.

Distogliendo la mente da quei pensieri improduttivi, Mikhail studiò con attenzione la fortezza: prese nota dei camminamenti fortificati e del numero di uomini che li presidiavano; di com'erano sbarrate le porte e di quanti uomini erano necessari per spostare l'enorme trave che lo teneva chiuso. Forse la conoscenza di tutti quei particolari non gli sarebbe mai tornata utile, ma non era sicuro di avere un'altra possibilità di studiare quella fortezza che minacciava di diventare la loro prigione.

Nella pioggia comparvero dei garzoni di stalla, uomini veri, non creature inanimate come i cavalieri che scortavano Padriac, con l'aria malaticcia e nervosa. Mikhail smontò da cavallo e si avvicinò per aiutare Marguerida a scendere di sella, ma Dom Padriac lo precedette, e tese la mano verso di lei. Marguerida rimase in sella e lo guardò come se fosse uno scarafaggio appena strisciato fuori da sotto un sasso; il suo volto aveva un'espressione regale, austera e imperiosa che richiamò alla mente di Mikhail Javanne Hastur nel suo atteggiamento più orgoglioso. Con un sorriso, decise che la sua amata era più che in grado di badare a se stessa, in quel frangente.

Passando accanto all'esterrefatto Padriac, Mikhail tese la mano e Marguerida la prese e scese di sella. Poi si rivolse a Dom Padriac, gli occhi dorati che scintillavano d'ira. «Non sapevo che nel sud non conosceste le buone maniere! Nessuno può toccarmi, solo mio marito!»

Il viso pallido di Padriac divenne bianco come un cencio, la bocca si torse in una smorfia d'ira: era chiaro che non era abituato a sentirsi apostrofare in quel modo, soprattutto da una donna. Strinse il frustino e per un secondo Mikhail pensò che volesse frustare Marguerida come aveva fatto con la povera donna sull'asinelio.

Ma subito dopo Dom Padriac lasciò andare il frustino, si rilassò e, riacquistata la padronanza di sé, sorrise, un sorriso privo di allegria o di calore. «Io posso toccare chi mi pare», cominciò con voce pericolosamente dolce. «Credo che non abbiate capito che ora siete una mia proprietà e che posso fare qualsiasi cosa...»

La leronis scese dall'asinelio e si precipitò verso di loro. «Lasciate stare!» sibilò tirando Padriac per una manica; aveva quasi gli occhi fuori delle orbite e sul suo viso c'era un'espressione che rasentava il terrore.

«Che cosa?»

Il nobile indignato si voltò, ma la piccola donna, pur tremando visibilmente, ribadì: «Vi prego, signore, siate cauto. Non ho mai incontrato un laran come il suo... deve certamente essere un nuovo tipo che hanno creato nel nord». Era riuscita ad attirare la sua attenzione. «E non si dice forse che solo uno sciocco s'inimica le proprie leroni?»

«Inimicare?» Sembrò riflettere per qualche istante sul concetto. «È questo che si dice? Non ricordo di averlo mai sentito prima. Ma forse avete ragione», concluse scuotendo il capo. Un branco di parassiti, queste leroni. Si aspettano di essere trattate come principesse, di avere le stanze più calde e il cibo migliore. Ci hanno resi dipendenti dalle loro perfide magie. Le ucciderei tutte senza pensarci due volte, tutte fino all'ultimo, se potessi. E quando mi sarò impadronito della Torre di Hali e avrò cacciato la genia degli Hastur, potrei anche farlo. Staremo molto meglio senza di loro... lei compresa!»

Quei pensieri penetrarono nella mente di Mikhail come un sussurro proveniente dal fondo di un lungo corridoio, e riportarono, più forte che mai, la sensazione che il suo destino fosse lì. Sperava solo che quel fato includesse anche la possibilità di uccidere quell'uomo.

Il vento cambiò, portandogli un lezzo così rivoltante da procurargli un conato di vomito. Il fango in cui lui si trovava puzzava, ma non era quello l'origine dell'odore: non era solo disgustoso, era qualcosa di più, era sbagliato, pericoloso e malsano. Non c'era da stupirsi se gli stallieri avevano quell'aria malaticcia.

Mikhail era sempre più perplesso, la situazione era davvero bizzarra: Dom Padriac non aveva nemmeno chiesto i loro nomi, cosa di cui lui era grato. Questo significava forse che erano stati rapiti e arruolati con la forza per distruggere i suoi antenati, se non aveva frainteso il pensiero di Padriac? Perché? E come? Sapeva di avere a disposizione tutti i dati, ma non riusciva a metterli insieme per formare un quadro coerente.

Nel cortile avvolto dall'ombra delle due Torri vide altri edifici: una casetta di pietra con una piccola porta rossa su un lato, e un altro edificio che a giudicare dal puzzo che ne usciva doveva essere una conceria.

In quel momento la porta ai piedi di una delle due Torri si aprì e ne uscì una donna giovane, sulla ventina o poco più, con i capelli rossi, una spruzzata di lentiggini sul nasino impertinente e una bocca avvezza al sorriso. Ma in quel momento le labbra erano tese e gli occhi socchiusi. «Oh, li hai trovati!» Guardò Mikhail ma la sua attenzione era tutta per Marguerida e, mentre la osservava, un'ombra calò sui suoi occhi grigi. Con espressione allarmata, gettò un'occhiata alla piccola leronis e tra le due donne vi fu una silenziosa comunicazione, improntata alla paura. Avevano paura di Marguerida, ne era certo, ma soprattutto avevano paura di rivelarne la ragione al loro signore.

«Sì, li ho trovati», rispose Padriac con un cenno del capo. «proprio come mi avevi detto, sorella. Confido che tu sia soddisfatta, ora, perché ho cose più importanti da fare che perdere tempo ad aspettare leroni sotto la pioggia.»

«Ma certo, Padriac, ma certo», rispose la ragazza col tono dolce e rassicurante di chi cerca di assecondare, ma sotto cui si avvertiva la tensione. E Mikhail ebbe la netta sensazione che tra di loro fosse in atto un conflitto.

«Venite, voi due. Vedo che avete bisogno di un bagno, di vestiti puliti e di un pasto caldo.»

«Devono cominciare a lavorare domani mattina», insistette Padriac. «Non possiamo più aspettare, dobbiamo cominciare.»

«Sì, fratello. So quello che faccio, li inseriremo negli schermi e tutto andrà secondo i tuoi piani.» Nonostante le parole, non sembrava sicura. Il tono della voce e il portamento indicavano disperazione e paura.

«A quanto pare siamo caduti dalla padella nella brace, Mik. Ho un brutto presentimento.»

«Descrizione perfetta, ma non vedo che cosa possiamo fare, al momento.»

«Io non sono quella che lei si aspettava e nemmeno quella che si aspettava Dom Padriac.»

«L'avevo capito anch'io. Speriamo che questo li lasci sconcertati fino a quando non avremo scoperto che cosa sta succedendo. Lui deve avere pessime intenzioni e queste donne lo stanno aiutando.»

«Benvenuti alla Torre di El Haliene. Adesso seguitemi», disse la donna sottovoce, dando per scontato che l'avrebbero obbedita senza fiatare. «Io sono Amirya El Haliene. Vi mostrerò le vostre stanze.» Si voltò e attraversò il cortile; dopo un attimo, Mikhail e Marguerida la seguirono.

Entrarono in un locale dalla luce fioca, spartano come una caserma, rischiarato solo da due torce, senza arazzi alle pareti; era freddo e ostile e aveva un odore orribile. Marguerida rabbrividì e si accostò al marito.

Mikhail vide una stretta scala curva in fondo al locale, che portava ai piani superiori. L'odore di muffa si univa al sentore acre degli schermi delle matrici; c'era un silenzio innaturale, ma Mikhail avvertì la presenza di persone poco lontano. Seguirono la donna senza parlare e ancora una volta Mikhail si meravigliò che non avesse chiesto i loro nomi.

Amirya li condusse dietro la scala, in un corridoio stretto. buio e opprimente, che portava nella parte posteriore dell'edificio. Faceva freddo e Mikhail sentì Marguerida stringersi a lui, e mettergli una mano sotto il braccio. Il profumo di lavanda che ancora emanava dal corpo di lei lo rassicurò; finché Marguerida era al suo fianco, era pronto ad affrontare qualsiasi cosa.

Sul corridoio si aprivano molte porte e Amirya ne spalancò una. «Questa è la vostra stanza», disse a Marguerida. Poi si rivolse a Mikhail: «La vostra è all'altra estremità del corridoio».

«Noi siamo marito e moglie e non dormiamo separati», scattò Mikhail; non aveva nessuna intenzione di lasciare sola Marguerida.

Amirya lo fissò incredula e poi turbata quando vide i braccialetti sui loro polsi. «Sposati? Ma...»

«Ma?»

«Come può essere? Questo rovinerà tutto. Non capisco... questo... non è affatto ciò che avevo previsto! Non mi stupisce che Padriac fosse... Oh, maledizione!»

«Che cosa rovinerà?» chiese Marguerida.

«Niente, non ha importanza. Presto sarà tutto finito.»

«Smettetela di parlare per enigmi, Amirya.» C'era un accenno di comando nella voce di Marguerida, e l'altra donna s'irrigidì.

«Noi... mio fratello...» S'interruppe, trasse un profondo respiro e ricominciò. «Io sono la Guardiana della Torre di El Haliene e vi ho trovati quando stavo cercando i mezzi per distruggere il campione del re. Non sarei Guardiana se nostra cugina Amalie non fosse stata tanto astuta da sfuggirci. Avrebbe dovuto lasciarci entrare a Hali quando siamo arrivati, e unirsi a noi, ma lei non ha nessuna lealtà.» Io sono fedele a Padriac e sarò ricompensata. E sono contenta che Amalie sia fuggita, perché, se fosse qui, io non sarei Guardiana.

«Non ho mai sentito parlare di nessuna Torre di El Haliene», disse Mikhail.

«Non ne sono sorpresa, perché abbiamo lavorato nella più grande segretezza per oltre un anno, creando gli schermi e preparandoci per... Non c'è mai stata una Torre come la nostra. È persino più grande di Hali, ne sono sicura.»

«Non sembrate tanto sicura, Amirya», ribatté Mikhail. «Avete piuttosto il tono di chi fischia passando davanti a un cimitero. E non siete un po' troppo giovane per essere una Guardiana?»

Con sua sorpresa, Amirya sorrise. «È proprio questa la cosa migliore, perché nessuno si aspetta che una persona giovane come me sia in grado di reggere le energie: è per questo che siamo riusciti ad andare avanti senza che nessuno sospettasse nulla. Be', quasi nessuno. Credo che Varzil Ridenow qualche sospetto lo abbia avuto, ma era troppo vecchio e impotente per poter fare qualcosa.»

In quell'istante, a Mikhail parve di percepire una risata lontana. Sapeva che qualsiasi cosa Amirya avesse previsto, in essa c'era lo zampino di Varzil. Il vecchio laranzu poteva anche essere in punto di morte, o già morto, ma impotente non lo era proprio.

Mikhail sentì un formicolio salire dall'anello e scoprì che un ghigno selvaggio si disegnava sulla sua bocca; dentro di lui qualcosa di forte e oscuro si mosse, acquattandosi come un grande felino. Avrebbe voluto scatenarlo, ma sentì che doveva rimandare a un altro momento l'impulso di distruggere quel luogo. Ma quella promessa lo rinvigorì.

Marguerida guardò nella stanza. «Credo che potremo adattarci qui; il letto è un po' stretto, ma noi due non siamo grassi.»

Amirya era sconvolta. «Non penserete di... accandir... mentre lavorate tra gli schermi! Esigo...»

«Potete esigere tutto quello che volete, domna, ma per noi non fa differenza», ribatté Marguerida con un sorriso. «Anche perché noi diamo il massimo quando accandir. Non è vero, cario?» L'occhiata che lanciò a Mikhail diceva una montagna di cose, e tutte lussuriose. Per essere una donna che fino a due giorni prima non aveva mai conosciuto un uomo, dopo l'iniziale incertezza, si era applicata alla cosa con un entusiasmo inesauribile e senza riserve.

La donna li scrutò socchiudendo gli occhi. «Che cosa siete?»

«In questo momento, due persone molto stanche. Qualcuno aveva parlato di un bagno, mi pare.» La freddezza nella voce di Marguerida fu raggelante, anche per Mikhail che la conosceva.

«Continuate a spostarvi davanti ai miei occhi... Che cosa siete?» Il panico era ora più che evidente.

Credo che sia meglio che tu non lo sappia. Mikhail sentì la moglie passare al rapporto forzato e ne percepì la forza, e anche la minaccia.

«Spostarsi? Che cosa credi che intenda, Marguerida?»

«Non ne sono sicura, ma ho il sospetto che noi due non siamo ancorati in questo tempo e a chi possiede la Vista può sembrare che continuiamo ad apparire e sparire.»

Il viso di Amirya era tirato e sconvolto; si morse un labbro e strinse i pugni. «Vi costringerò a dirmelo! Non oso deludere mio fratello. Se sarà necessario, useremo un incantesimo di verità.»

«Non credo che sarebbe una cosa saggia», ribatté Marguerida. «E potrebbe essere fatale per chi ci provasse. Ma la decisione spetta a voi, Amirya, non a me. Siete voi che ci avete fatto portare qui, e dovete subirne le conseguenze.»

«Che devo fare?» Fu il gemito di una bimba giunta al limite delle sue risorse. «Non doveva essere così! Voi non siete quello che sembrate e, se lo dico a Padriac, sarà un inferno. Se non otterrà quello che vuole... no, non oso pensarci!»

«Forse, allora, potreste riflettere se sia un bene dare a vostro fratello quello che crede di volere. Costruire una Torre segreta, tenere in schiavitù leroni senza il loro consenso... nessuna di queste cose mi sembra molto saggia. Questo luogo trasuda male, Amirya, e credo che anche voi lo sappiate. Credo che sappiate che state facendo una cosa sbagliata e credo anche che questo vi tormenti.»

«Se solo... potessi essere sicura», sussurrò tremando.

«Non c'è modo di essere sicuri di nulla, se non del fatto che al mattino sorgerà il sole e che d'inverno cadrà la neve. Il resto è scelta e conseguenze. Io so che i nostri destini sono legati per il momento e che voi potete mutare l'esito, se davvero lo volete. Ma rendere felice vostro fratello può non essere possibile.»

Negli occhi di Amirya comparvero le lacrime, che brillarono sulle ciglia chiare e scesero luccicanti sulle guance. «Ho tanta paura. Se credevo di averne prima, ora...»

«Lo so. Lo sappiamo entrambi. Ma se non mangeremo presto qualcosa, cadremo svenuti tutti e due e questo, senza dubbio, indispettirà non poco vostro fratello.»

Mikhail capì che Marguerida non stava usando la Voce di Comando, ma, chissà come, influenzava ugualmente la giovane donna; notò infatti che la sua mano sinistra si muoveva in gesti impercettibili, nascosta contro la gonna. Stava operando una specie di guarigione su quella ragazzina disperata, calmando le sue paure; e lui conosceva abbastanza la natura umana per sospettare che tra un attimo Amirya si sarebbe convinta che quello che aveva visto era solo uno scherzo dei suoi occhi e che loro non scomparivano affatto.

Mentre la guardava, la tensione sembrò abbandonare il corpo di Amirya. «Sì, certo. Vi manderò un servo con un vassoio. La stanza da bagno è la seconda porta lungo il corridoio... non aprite nessuna delle altre! Non voglio che disturbiate gli altri mentre riposano. Hanno bisogno di tutta la loro forza. E mi occuperò di farvi portare abiti puliti e asciutti.»

Amirya si voltò e fuggì lungo il corridoio, come se volesse mettere la maggior distanza possibile tra loro. Li terrò confinati nella loro stanza... non oso servirmi di loro... non ora! Che cosa devo fare?

Marguerida entrò nella stanzetta buia e cupa, si tolse il mantello e lo appese a un gancio, poi si lasciò cadere sul bordo del letto. Mikhail si sedette accanto a lei. «Almeno non siamo più sotto la pioggia», mormorò lei con aria infelice.

La quiete e il silenzio parvero ingigantirsi e Mikhail si accorse che la sua mente si rilassava. Per il momento non poteva fare nulla e, come aveva detto Marguerida, era bello non essere più esposti alle intemperie.

Sentì i suoi sensi formicolare, espandersi fuori del suo corpo, come linee di energia. La sensazione iniziò lentamente e fu così sottile che quasi non se ne accorse fino a quando non incontrò la presenza di un'altra persona, che non era Marguerida, ma un perfetto sconosciuto, e anche molto malato. Dove si trovava?

Dopo un attimo, Mikhail capì che la persona che stava percependo si trovava a due camere di distanza; non captò nient'altro, solo una sensazione d'incredibile sfinimento e di malattia, non una personalità. Non capì neppure se l'uomo era giovane o vecchio.

Allora lasciò che la sua consapevolezza vagasse libera e quello che scoprì non gli piacque: tutto intorno a loro, c'erano persone sfinite dalla stanchezza, tutte dotate di laran, e molte di loro erano anche sofferenti. Parecchi soffrivano di scottature, uno era sull'orlo della follia e qualcuno era quasi in punto di morte.

Mikhail trasalì: non era mai stato in grado di fare una cosa simile, prima, solo di osservare. In teoria non era diverso dalla tecnica usata per controllare un cerchio, ma era comunque stupefatto. Poteva esplorare a suo piacimento la fortezza, dal soffitto alla cantina, senza sforzo. Ma non in quel momento, decise; doveva muoversi con cautela.

In che cosa si stava trasformando? Quella domanda si presentò spontanea alla sua mente e lo fece rabbrividire. Si voltò per parlare con Marguerida e scoprì che aveva appoggiato la testa sul cuscino e si era addormentata. La guardò per qualche istante, osservando come il suo viso si rilassasse nel sonno. Avrebbe dovuto dormire anche lui, fino all'arrivo del cibo, ma non si sentiva stanco. In realtà voleva scoprire in che cosa si stava trasformando.

No, non era esattamente così: la domanda giusta era in che cosa si stavano trasformando loro due. Perché quello che stava avvenendo era legato a Marguerida, al modo inesplicabile in cui le loro energie si erano fuse durante quella bizzarra cerimonia nuziale. Mikhail era quasi sicuro che, pur avendo ereditato l'anello di Varzil, non aveva assorbito anche il suo laran. Quantomeno in nessuna delle documentazioni cui aveva avuto accesso si faceva cenno alla possibilità di trasferire i poteri del laran da una persona all'altra.

Quanta parte dell'immensa conoscenza di Varzil riposava sul suo dito? E lui come ne avrebbe scoperto i segreti? O quei segreti li conosceva già, ma non era in grado di farli affiorare nella mente? Anch'io ho la mia matrice ombra, ora.

Mikhail guardò la mano di Marguerida, coperta dal guanto di seta: persino attraverso la stoffa riusciva a percepire le linee che le correvano nella carne e sentiva la loro risonanza nel proprio corpo e nella sua matrice.

Sì, anche questa era una componente. Siamo davvero le due parti di un intero. Quella comprensione lo scosse nel profondo permettendogli di capire perché tutto era dipeso da Marguerida e dalla sua insolita matrice. Cercare di capire le implicazioni di quello che aveva appena compreso gli fece girare la testa e dovette rinunciarvi; era troppo, per il momento. Ma dentro di lui era radicata la certezza di possedere ormai un potere più grande di quanto avrebbe mai potuto immaginare. In quanto a essere in grado di padroneggiarlo, quello sarebbe arrivato in seguito; per il momento lui era ancora Mikhail Hastur e aveva moltissimo da imparare.

Dal corridoio giunse un rumore soffocato di passi e un attimo dopo un servitore comparve sull'uscio della stanza che era rimasto aperto; era un uomo di mezza età, con un vassoio da cui si levava invitante il profumo di due uccelli arrosto, accompagnati da una terrina di porridge e una grande pagnotta. Sul vassoio c'erano anche due tovaglioli un po' sporchi e due cucchiai di legno.

Senza dire una parola, il servo tese il vassoio verso Mikhail, che lo prese e lo appoggiò in fondo al letto, dal momento che l'unico tavolo della stanza era occupato da una brocca e da un catino. Il servo se ne andò e Mikhail rifletté che c'era qualcosa d'inquietante nel suo comportamento.

«Sveglia, dormigliona. È arrivata la cena.»

«Eh?»

Marguerida si svegliò e per un secondo lo guardò con espressione da gufo. Poi annusò e sorrise. «L'odore è buono.»

Mikhail posò il vassoio in mezzo; Marguerida si mise in grembo un tovagliolo, prese uno dei due volatili, staccò una coscia dal petto e vi affondò i denti. Un rivoletto di grasso le scese lungo il mento e lei lo pulì con una manica, graffiandosi col braccialetto. Mikhail quasi non se ne accorse, troppo impegnato a saziare la propria fame. Quando arrivò il secondo servo con i vestiti, anche Mikhail era parecchio unto, ma non gliene importava nulla, perché aveva intenzione di fare il bagno appena finito di mangiare.

Anche quel servitore se ne andò senza aprire bocca e Mikhail si chiese se per caso non avessero ricevuto l'ordine di non parlare. Staccò un pezzo di pane, lo addentò e fece una smorfia: aveva un gusto strano, c'era qualcosa di acido nell'impasto. Se non fosse stato tanto affamato avrebbe sputato, invece masticò e poi lo mandò giù desiderando che ci fosse un po' d'acqua o di birra per aiutarlo a deglutire. Per un attimo si perse nel ricordo dell'ottima birra prodotta alla locanda di Mestra Gavri, poco lontano da Castel Ardais, poi scrollò le spalle e, prendendo un cucchiaio, attaccò il porridge. Era granuloso e insapore, proprio come quello che era stato costretto a mangiare per lunghe settimane alla Dimora di Halyn.

Marguerida aveva finito metà della selvaggina e provò col porridge e anche lei fece una smorfia. «Deve essere la giornata di libertà del cuoco», mormorò.

Mikhail si pulì la bocca col dorso della mano. «O forse è proprio tradizione degli Elhalyn non saperne assumere di capaci. Chissà perché i servi non parlano.»

«Sì, l'ho notato. Credo che siano costretti al silenzio... o almeno mi è parso di percepirlo quand'è arrivato il servo con i vestiti. Credo che quella strana donna che era con Dom Padriac stia facendo cose che renderebbero furiosa Istvana, se ne venisse a conoscenza.»

«Mentre stavi facendo il tuo sonnellino, ho fatto un po' di ricognizione... senza muovermi dalla stanza. Ci sono leroni in questo edificio, e sono tutte in condizioni pessime. In questo posto sta accadendo qualcosa di terribile e vorrei proprio sapere di che si tratta.»

«Una ricognizione senza muoverti dalla stanza?»

«È un trucchetto nuovo che a quanto pare ho ereditato insieme con l'anello di Varzil.»

«Vuoi insegnarmelo? Mi sembra utile. Beeh! Questo porridge è disgustoso. Hai mai riflettuto che la cosa meravigliosa della telepatia è che si può parlare con la bocca piena?»

«No, e se soffoco perché mi fai ridere, finirai con l'uccidermi. Che ne pensi di tutto questo, Marguerida?»

«No, non puoi insegnarmelo; e no, non ci avevo mai riflettuto.»

«Tu hai pensato a qualcosa e non vuoi dirmelo.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché, quando scherzi, lo fai per distrarmi dalle cose sgradevoli, caria.»

«Sì, hai ragione. È un deplorevole difetto del mio carattere. Va bene: credo che Dom Padriac stia cercando di produrre materiale fissile.»

«Come ti è venuta in mente questa idea?»

«Per via di parecchie cose. Ho notato una specie di luminescenza sulla scala che porta ai piani superiori, quando siamo entrati. E questo mi ha fatto pensare. E ricordo che, quando stavo cercando di leggere tutto quello che era contenuto nello scriptorium di Arilinn, facendo impazzire l'archivista, mi sono imbattuta in resoconti che mi hanno fatto sospettare che a un certo punto, durante il periodo in cui ci troviamo ora, siano state usate armi a basso potenziale atomico. Accidenti! Mi sento la testa annebbiata. E una delle cose cui Varzil ha messo fine, ma la conoscenza non è ancora andata perduta e sospetto che Padriac intenda usarla.»

«Ma perché?» Mikhail sapeva che sul pianeta esistevano ancora dei luoghi che di notte emettevano un bagliore e che erano evitati da tutti. E l'educazione terrestre che aveva ricevuto gli aveva fornito una rudimentale conoscenza della fisica. Non era sorpreso che Marguerida ne sapesse di più: l'unica scienza che lui conosceva era quella delle matrici, e non la chimica o la fisica e l'uso che i terrestri ne facevano.

«Da quel poco che ci ha detto Amalie, credo che abbia una guerra in corso con Hastur di Thendara. Ora, Mik, se il tuo nemico fosse in un certo posto e tu avessi la capacità di distruggerlo, quel posto, che cosa faresti?»

Lo stupore di Mikhail fu tale che per un attimo fu incapace di rispondere. Quella possibilità andava contro tutto ciò in cui credeva: colpire un nemico da lontano era un atto vile e disonorevole. Ma Marguerida aveva ragione; durante le Ere del Caos, prima della formalizzazione del Patto, era proprio così che si comportavano tutti i piccoli Regni in guerra.

«È orribile! Di certo, se fosse successa una cosa simile... ci sarebbero testimonianze...»

«Mik, io non pretendo di rapire, ma sappiamo che non è successo, e forse la ragione è che siamo stati noi a impedirlo. Però, ora come ora, quello che dobbiamo fare è cercare di capire che cosa sta realmente succedendo in questa Torre, e poi vedremo il da farsi. La domanda vera è: le nostre azioni cambieranno il futuro o lo preserveranno?»

Mikhail venne colto da un attimo di sconforto, poi la guardò e la vista del suo viso sporco di grasso, dei capelli scarmigliati lo rincuorò. Si chinò e le baciò la bocca unta.

Diede un altro morso al pane e sentì la bocca raggrinzirsi. Il grano era forse andato a male? E perché si sentiva svenire, proprio adesso che aveva mangiato? Si sentiva debole, e annebbiato. Sputò il pane, poi andò al catino e con l'acqua della brocca si sciacquò la bocca.

Marguerida lo stava guardando, con aria intontita. Poi per un attimo abbassò lo sguardo sul cibo. «Le torcerò il collo!» Parlò in terrestre, non in casta, e Mikhail fece fatica a tradurre. «Il cibo è drogato! O avvelenato!» Con una specie di rigurgito, Marguerida si alzò e si chinò sul catino, vomitando e sputando.

Mikhail la sostenne per le spalle. Dopo un istante di rabbia, sentì la mano su cui portava l'anello diventare calda e, dopo un attimo, una sensazione di benessere gli invase il corpo. Qualsiasi cosa ci fosse nel pane, o forse nel porridge, cambiò e lui rimase a guardare quella trasformazione, affascinato e stupefatto.

Marguerida s'irrigidì e lui capì che anche lei stava provando l'incredibile sensazione di venire purificata. E proveniva da lui, non da lei. Per una ragione che non riuscì a comprendere, questo gli fece un immenso piacere. Marguerida sputò ancora nel catino, si pulì la bocca con la mano e si raddrizzò, appoggiandosi a lui. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto, mi sento molto meglio.»

«Anch'io. In quanto al collo di quella donna, dovrai dividerlo con me.»

Marguerida rise e lo abbracciò. «Eccoci qui, tanto affamati da divorare un bue e il cibo è tossico. E prigionieri di questo orrendo castello. Perché non sono completamente terrorizzata?»

«Non lo so, amore, ma sono contento che sia così. E se solo riesco a capire il modo, credo di poter fare qualcosa per il cibo. La selvaggina è sana, sono il pane e il porridge che sono stati avvelenati. Ce la caveremo, in qualche modo.» Mikhail sapeva che avrebbe dovuto avere paura, e in effetti una parte di lui era spaventata. Ma insieme avrebbero potuto risolvere il problema... non separatamente, ma come una persona sola, come doveva essere. E dovevano cercare di sopravvivere.

 

CAPITOLO 32

IL POTERE DELL'ANELLO

 

«Mi chiedo se Amirya ha intenzione di lasciarci qui a marcire e ad annoiarci sino alla fine dei tempi», si lamentò Marguerida il quarto giorno di segregazione.

«Non mi sembravi tanto annoiata un'ora fa», rispose Mikhail con un sorriso.

«Non possiamo passare il resto della nostra vita a fare l'amore e a dormire, Mik!»

«Ci sono destini peggiori... ma hai ragione. È stupefacente che non ci siamo ancora dati sui nervi. Questa stanza mi sembra più piccola ogni volta che la guardo. Ma mentre facevi un sonnellino, ho continuato con la mia esplorazione. Sto diventando piuttosto bravo.»

«Hai scoperto qualcosa di utile, o ti sei limitato a origliare?»

Mikhail si spostò, cercando di trovare una posizione più comoda su quel letto stretto. Era appoggiato al muro, con le gambe piegate, e anelava un po' di libertà. Durante la segregazione aveva imparato molto, anche se ancora non comprendeva ogni cosa sino in fondo. «C'è un grosso deposito di esplosivi dall'altra parte della Torre, in quell'edificio di pietra con la porta rossa che abbiamo visto arrivando.»

«Come ci riesci? Non capisco ancora come fai quel trucchetto dell'esplorazione... e tu?»

«No, nemmeno io. Immagino che sia una funzione della matrice e la accetto per quello che è. Tutto quello che so è che sono in grado di percepire gli spazi e a volte anche quello che contengono. Per esempio, so che c'è un salone di banchetti nell'altra Torre, molto grandioso, anche se molto freddo; Dom Padriac ci passa molto tempo, sognando di distruggere Thendara, immagino. Non ci sono rimasto molto, per paura che la mia presenza potesse venir percepita.»

«M'interessa di più andarmene di qui.»

«Non sarà facile: il corridoio in cui ci troviamo è sbarrato all'estremità che porta alle cucine. Ci sono un cuoco e dei servitori, ma nessuno di loro parla molto, quindi non sono riuscito a sapere nulla. Però ho notato un'aria di aspettativa, una sorta di ansia generale, quindi credo che le cose stiano maturando. Se riuscissimo in qualche modo a superare quella porta, attraversando le cucine, le scuderie sono a un centinaio di metri. Poi c'è il cancello, che non riusciremmo ad aprire da soli.»

«Oh, non saprei», disse Marguerida piegando la mano sinistra e socchiudendo gli occhi. «Se riuscissi ad arrivarci, credo che potrei fare qualcosa.»

Mikhail la osservò: dormiva molto e restava in silenzio per lunghi periodi, e questa era una cosa che al principio l'aveva preoccupato, perché la Marguerida che lui conosceva era molto più attiva e vigile. Adesso invece sembrava quasi sempre persa in un sogno a occhi aperti. Però aveva capito che stava in un certo senso lavorando, perché, quando dormiva, dalla sua mente gli giungevano impressioni molto complesse. Era chiaro che il contatto con la matrice di Varzil aveva provocato dei cambiamenti in lei e aveva bisogno di tempo per integrarli. Lui aveva lo stesso problema ed era una fortuna che Amirya li avesse ignorati invece di metterli subito al lavoro come aveva promesso al fratello.

«Sì, se riuscissimo ad arrivarci, probabilmente ne saresti in grado. Però, al momento, non abbiamo speranze.» Cambiò di nuovo posizione. «Ho cercato di tracciare una mappa di tutto il posto e l'unica area in cui non riesco a penetrare è proprio sopra la nostra testa. Percepisco molti schermi, ma è così ben smorzata che al suo confronto la Sala di Cristallo sembra un colabrodo. E so che le persone che occupano le altre stanze salgono là sopra e che sono molto malate. Non ho mai visto nulla di simile, Marguerida. Si stanno consumando lentamente.»

La seconda notte aveva udito lo scalpiccio di molti passi fuori della porta; aveva percepito il loro stato di prostrazione e anche la vacuità delle loro menti. Sembrava che non conoscessero neppure i loro nomi e il normale ronzio di pensieri umani era totalmente assente. Ma la cosa che più lo aveva turbato era che non parlavano neppure.

Li aveva seguiti con la mente e con sua sorpresa a un certo punto erano scomparsi tutti; era stato allora che aveva scoperto che i piani superiori dell'edificio erano protetti da schermi telepatici che impedivano di vedere al di là. Era come se i piani superiori fossero invisibili.

«Lo so, e questo mi rende furiosa. Sono stati drogati per renderli sottomessi e penso che Amirya si aspetti che ormai lo siamo anche noi. Ma non credo che siano le droghe la causa del loro stato di prostrazione... In questo posto c'è qualche veleno e non sono certa che non ci ammaleremo anche noi, se resteremo qui a lungo. È un peccato che non possiamo far saltare tutto per fuggire.»

«Già, ma anche il laran ha i suoi limiti.» Guardò l'anello che scintillava sulla sua mano e si chiese se sarebbe vissuto abbastanza da imparare a usarlo.

Si udì bussare alla porta e un istante dopo uno dei servi silenziosi comparve sull'uscio e fece loro cenno di seguirlo. Mikhail si alzò e scoprì che gli si era addormentato un piede. Si chinò per infilarsi le morbide pantofole che erano state portate loro insieme con comodi e ampi abiti di lana.

«Finalmente siamo stati chiamati anche noi.»

«Questo lo vedo... ed era tempo!»

Il servitore, cinereo in volto, si mise un dito sulle labbra e scosse il capo, ammonendoli a non parlare. L'uomo era magro al punto di essere emaciato e il suo viso aveva un'espressione di terrore. Mikhail lo ignorò. «Come ti senti, tesoro?»

«Molto nervosa, questo posto è opprimente. Per quanto dorma, ho sempre l'impressione di non essere riposata. Non mi sento malata o niente di simile. In realtà, se dovessi descrivere il mio stato d'animo, direi che sono molto felice per nessuna ragione in particolare.» Gli sorrise. «Be', essere sposata con te è già una ragione sufficiente.»

Mikhail ridacchiò. «Se riesci a sentirti felice in queste circostanze, caria, allora sei molto più sorprendente di quanto non credessi.»

«E faremmo meglio a stare zitti, prima che a questo povero diavolo venga un colpo, Mik.»

«Il povero diavolo? Oh, mi ero quasi dimenticato di lui. Hai ragione. Forse adesso scopriremo finalmente che cosa sta succedendo. Niente lampi sul futuro?»